Ripetutamente proclamato morto, Marx continua a far discutere. Il silenzio calato sulle analisi dell’autore del Capitale in
seguito alla caduta del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione
Sovietica sembra essersi infranto. In questo senso, il dibattito
culturale italiano non fa eccezione rispetto alle tendenze dominanti su
scala internazionale, presentando semmai un ritardo, causato dalla
lunga durata della precedente fase di lotte sociali e, parallelamente,
da una condizione di subalternità all’egemonia culturale statunitense,
che proprio l’esaurimento di quel periodo di lotte ha riproposto in
forma più accentuata. Tra la fine degli anni Settanta e la fine degli
anni Ottanta, infatti, si è consumata una stagione teorica di abiure e
di precari eclettismi, cui ha fatto seguito un revival altrettanto
affannoso dell’ideologia dei diritti umani, accompagnato dalla
frammentazione delle identità collettive in individualità private. Per
contro, il dibattito dell’ultimo decennio mostra un ritorno d’interesse
per le condizioni sottostanti la vita dei tanto vezzeggiati
individui, ed è qui che un rinnovato confronto con il vecchio Marx può
trovare spazio d’accoglienza.
A completare
il quadro sono poi intervenuti due fattori decisivi: l’esaurimento del
movimento altermondialista e una nuova e presumibilmente durevole crisi
economica globale. Il panorama si è fatto insomma sempre più cupo,
contribuendo a spazzare via illusioni di varia natura e riportando
l’attenzione su quella ‘durezza’ del reale che di Marx fu l’elemento
naturale. Da questa soglia storica, databile a poco più dell’ultimo
quinquennio, muove questo tentativo di ricostruire, per rapidi tratti,
le più recenti letture italiane di Marx.1
Sull’onda della ripresa dell’edizione storico-critica delle opere complete di Marx e di Engels,2 si può infatti notare come la Marx-Renaissance diffusa a livello sovranazionale sia finalmente approdata anche in Italia.
Nel 2004 il simposio internazionale organizzato a Napoli sul tema L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia ne
è stato insieme testimonianza e rilancio, anche per l’attenzione
suscitata a posteriori dagli atti a stampa editi da Manifestolibri.3
A distanza di due anni, nel 2007, la medesima editrice ha pubblicato il volume Da Marx a Marx?, frutto di una giornata di studi svoltasi a Bergamo nel novembre 2005 in concomitanza con la diffusione dell’imponente Storia dei marxismi in Italia scritta da Cristina Corradi,4 un’opera che ha concorso a tradurre la Marx-Renaissance in una Marxismus-Renaissance,
attraverso l’esame critico degli storici contributi, tra gli altri, di
Galvano Della Volpe, Cesare Luporini, Lucio Colletti, Raniero
Panzieri, Piero Sraffa, Claudio Napoleoni.
Tappe ulteriori di questo itinerario sono state due convegni internazionali: Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, svoltosi nel novembre 2006 presso l’Università di Milano-Bicocca; e Pensare con Marx, ripensare Marx convocato
pochi mesi più tardi, nel gennaio 2007, presso l’Università di Roma-La
Sapienza. In entrambi i casi il lascito marxiano è stato discusso con
intento attualizzante e con prevalente contributo di filosofi, pur
senza trascurare i versanti economico e politico, come dimostrano i
rispettivi atti raccolti in volume5.
Si può ancora segnalare che, in occasione delle celebrazioni del settantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci (2007), numerosi convegni, accompagnati da pregevoli iniziative editoriali, hanno contribuito a rilanciare l’elaborazione di uno dei più importanti marxisti del Novecento, spesso stimolando discussioni e studi ulteriori proprio sul suo rapporto con Marx e i marxismi.6
Si può ancora segnalare che, in occasione delle celebrazioni del settantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci (2007), numerosi convegni, accompagnati da pregevoli iniziative editoriali, hanno contribuito a rilanciare l’elaborazione di uno dei più importanti marxisti del Novecento, spesso stimolando discussioni e studi ulteriori proprio sul suo rapporto con Marx e i marxismi.6
Fa il punto sulla ricezione del pensiero di Marx la recente raccolta di saggi di Marcello Musto, che, nel volume Ripensare Marx e i marxismi,7 pone
i risultati di un lungo lavoro di ricostruzione bibliografica e scavo
archivistico al servizio di un tentativo di revisione critica del
marxismo ‘ufficiale’ novecentesco, intrecciando prospettiva
storico-filologica ed etico-politica secondo la lezione di Maximilien
Rubel – curatore dell’edizione francese delle opere di Marx per la
Pléiade di Gallimard, ma anche capace di offrire coraggiosamente, nel
cuore della Guerra fredda, la lettura eterodossa di un Marx critico del marxismo. Musto è tra i pochi che alla conoscenza delle nuove acquisizioni della MEGA2 aggiunga
lo studio d’inediti marxiani custoditi negli archivi dell’Istituto
Internazione di Storia Sociale di Amsterdam, cosa che gli consente di
ripercorrere con originalità tappe cruciali dell’itinerario biografico e
politico del pensatore, passando dal «mito del giovane Marx»,
soprattutto quello dei celebri Manoscritti economico-filosofici del 1844, all’esame dei Quaderni di Londra,
risalenti al periodo di «studio matto e disperatissimo» dei primi anni
Cinquanta; per arrivare agli studi economici preparatori del Capitale condotti in vasti appunti di lettura e nei celebri Grundrisse – di cui Musto ricostruisce la genesi, la diffusione postuma e la ricezione presso le diverse scuole ‘marxiste’.
Non
si può però non rilevare come i nuovi approfondimenti continuino a
svolgersi in assenza dell’edizione italiana completa delle opere di Marx
e di Engels. L’impresa avviata nel lontano 1972 dagli Editori Riuniti,
inizialmente prevista in cinquanta volumi, fu infatti interrotta nel
1990, quando ne mancavano ancora diciotto, per di più in ordine
cronologico non consecutivo. All’inizio del nuovo secolo un gruppo di
lavoro universitario nazionale, guidato dal milanese Mario Cingoli, ha
raccolto il testimone, avvalendosi dei frutti dell’indagine filologica
sottesa alla nuova MEGA. Si è così insediato un nuovo Comitato
Scientifico, incaricato di ricominciare l’edizione là dove si era
arrestata. Nel 2008 il XXII volume, con gli scritti del periodo «luglio
1870-ottobre 1871», è apparso a Napoli da un nuovo editore, La Città
del Sole, in collaborazione con i vecchi Editori Riuniti.8 Il
sodalizio è stato interrotto all’inizio del 2012, allorché le edizioni
La Città del Sole hanno dato alle stampe il complesso volume (in due
tomi distinti) del primo libro del Capitale, sul quale è ancora
prematuro esprimere giudizi di merito, ma che comunque si presenta
caratterizzato da spiccati elementi d’innovazione,9 a
partire dalla scelta del curatore Roberto Fineschi di presentare il
testo del 1867 in una traduzione profondamente rivista, senza per questo
respingere del tutto la vecchia versione di Delio Cantimori. Il volume
è corredato da un imponente apparato critico, che fa riferimento alle
più recenti acquisizioni filologiche della MEGA, e dalle varianti delle
diverse edizioni, quelle tedesche del 1867 e del 1873 (la seconda
edizione) e quella francese
di Joseph Roy (apparsa a dispense tra il 1872 e il 1875), che Marx
stesso aveva seguito e approvato, dopo essere però intervenuto
direttamente e in profondità sul testo. Il lavoro è completato da un
nuovo adattamento del VI capitolo inedito, da scritti diversi e
di grande importanza sul tema del valore, nonché da preziosi indici e un
opportuno glossario, che permettono al lettore di orientarsi nelle
oltre 1500 pagine a disposizione. Altri volumi delle Opere complete in
italiano sono stati programmati, e gruppi di lavoro nazionali sono al
lavoro per dar seguito a un’impresa che sul piano politico-culturale è
certo assai ambiziosa e, stando ai primi risultati, molto promettente.
La
rinascita degli studi marxiani in Italia ha invece lasciato pressoché
indifferenti le diverse formazioni politiche che ancora si richiamano a
Marx e al ‘marxismo’, ma che non sembrano in grado di uscire da una
posizione politicamente residuale e culturalmente rituale. Di fatto, la
fine del PCI e l’avvio di una esperienza politica neocomunista che era
riuscita a coinvolgere anche le formazioni politiche eredi della ‘nuova
sinistra’, a cominciare da Democrazia Proletaria, non ha mantenuto le
aspettative di un nuovo inizio che potesse reintegrare le diverse
componenti in un progetto al tempo stesso coerente e pluralistico. Gli
studiosi sono cosi rimasti confinati in una collocazione forse comoda,
ma ininfluente, mentre la base militante è stata impegnata
nell’ordinaria gestione del quotidiano, finché la mancanza di una
prospettiva a lungo termine ha favorito la tendenza alla diaspora di
fronte agli ostacoli più impegnativi.
Si
può consentire con le scelte politiche dell’una o dell’altra
formazione, ma è un fatto testimoniato anche dai rispettivi Atti
congressuali che sia quel che resta dell’originario Partito della
Rifondazione Comunista, sia il Partito dei Comunisti Italiani, e ancora
Sinistra Critica, il Partito Comunista dei Lavoratori o altre
formazioni minori, continuano a difettare di quella politica culturale
che sola potrebbe tradurre la sempre ribadita necessità di nuove
articolazioni teoriche in un effettivo percorso politico, fatto di
studio e proposte coraggiose. Sporadicamente associazioni culturali o
centri di studio collaterali ai partiti esistenti tentano di rilanciare
l’esigenza di riflessioni specifiche, trovando regolarmente scarsa
attenzione nei gruppi dirigenti, preoccupati innanzitutto della
sopravvivenza propria e delle proprie organizzazioni. Prima ancora che
sul piano teorico, l’eredità marxiana sembra dunque scomparsa sul piano
antropologico, come coerenza d’impegno critico tesa a dissolvere le
artificiose distinzioni dell’agire sociale (massima fra tutte, quella
fra lavoro intellettuale e manuale, ruoli direttivi ed esecutivi): un
esito ben più grave, poiché non si tratta ormai di quali opzioni
teoriche si affermino, ma dell’esistenza stessa della discussione
teorica come momento politicamente rilevante, anziché come lusso per
chi se lo può concedere e perdita di tempo per chi ha cose più
importanti di cui occuparsi.
Pertanto,
in Italia, il recente dibattito è rimasto confinato in qualche aula
universitaria, nelle sale in cui si sono ripetutamente dati convegno gli
intellettuali, o negli uffici di qualche coraggiosa casa editrice. Non
senza risultati, tuttavia, se si osserva il numero di pubblicazioni
che si sono accumulate nella seconda metà del decennio, alcune delle
quali di notevole interesse, in quanto capaci di sollevare ulteriori
dibattiti e d’indicare nuovi indirizzi di ricerca. E proprio sulla
differenza nelle direzioni di ricerca vorrebbe strutturarsi
concettualmente questa breve presentazione.
Un
primo capitolo va dedicato alle riletture attualizzanti e vede tra gli
autori una prevalenza di filosofi della politica, filosofi della
storia e storici della filosofia. Si segnala intanto una nuova
antologia di testi marxiani scelti e sobriamente commentati da Enrico
Donaggio e Peter Kammerer, edita da Feltrinelli nel 2007 con l’asettico
titolo di Antologia, ma significativamente sottotitolata Capitalismo, istruzioni per l’uso,
con dichiarata focalizzazione su un Marx che per tutta la vita avrebbe
inteso studiare il modo di produzione capitalistico come una forma di vita,
dialetticamente contrapposto al comunismo come la promessa di felicità
più seducente della storia umana. La prospettiva risulta assai
interessante, benché accetti nettamente una ricostruzione dell’opera di
Marx improntata alla continuità, che finisce per rendere i due curatori
reticenti sugli aspetti più controversi per oltre un secolo di
filologia marxiana. Al netto di questa rinuncia, resta una pregevole
operazione, che non s’indirizza soltanto agli specialisti e da cui
emerge un Marx declinato in chiave sociologico-antropologica, che ha
molto più da dialogare con Weber che con Hegel: per gli autori, un
titolo di merito e un segno di attualità.10
Altro buon viatico per letture ulteriori è l’antologia di scritti economici curata da VladimiroIl capitalismo e la crisi del
2009. Al di là della meritoria presentazione di scritti giornalistici
in buona parte inediti in italiano, la tempestività della pubblicazione
permette di apprezzare un Marx paradossalmente più attuale oggi di
centocinquant’anni fa, quando già aveva individuato nelle crisi
economiche un elemento strutturale di quel modo di produzione dove
casuale è l’equilibrio.11 Giacché, per l’editore DeriveApprodi,
Una
sintesi complessiva del pensiero marxiano da un punto di vista
filosofico-politico è il volume monografico di Stefano Petrucciani,12concorde
coi precedenti nel fornire una lettura all’insegna della continuità
della meditazione di Marx, fin dalla scelta di ripercorrere genesi e
sviluppo del suo percorso nel rispetto del criterio cronologico. Sarebbe
l’aspirazione, mai accantonata, alla «ricomposizione del sociale e del
politico»,13 a
costituire la cifra unitaria del comunismo criticoscientifico del Moro
di Treviri. Nondimeno, in questo nucleo biograficamente e teoreticamente
originario, viene evidenziata una impasse: Marx avrebbe
riconosciuto le contraddizioni decisive della modernità (Stato/società
civile; uomo/cittadino; ineguaglianza sociale/eguaglianza politica),
indicando quale unica soluzione possibile il loro «superamento» e la
loro «ricomposizione in una socialità non mediata dallo Stato e dal
denaro», quando invece – afferma Petrucciani appoggiandosi ad Habermas –
tali media potrebbero rivelarsi «indispensabili per coordinare
le azioni individuali nelle moderne società complesse», a patto di
«neutralizzarne gli effetti di dominazione e di alienazione».14 Sembra
qui difettare quella fondamentale tesi marxiana, già accantonata da
Horkheimer e Adorno, prima di Habermas, che la funzione di Stato e
denaro è un attributo del modo di produzione capitalistico, sicché il
problema di una loro possibile funzione senza «dominazione» e
«alienazione» può porsi solo fuori o contro di esso, in un orizzonte
tanto trasfigurato da non farli rassomigliare in nulla allo Stato e al
denaro cui l’Autore si riferisce.
Se
non accetta la cesura althusseriana, nondimeno Petrucciani riconosce
negli scritti del 1845 una nuova impostazione, che da un lato non è
interessata ad elaborare una nuova filosofia, dall’altro muta
completamente il modo di scrivere la storia, a partire dalla successione
dei diversi modi di produzione. Pur accreditando alla consolidata
concezione materialistica una persuasiva analisi del passaggio tra i
modi di produzione feudale e capitalistico, le viene simmetricamente
addebitata l’incapacità di spiegare le transizioni precedenti e,
soprattutto, quella al comunismo. Desta tuttavia perplessità
l’affermazione che la teoria del valore-lavoro, da Marx collocata alla
base dell’intero edificio teorico, risulterebbe «insostenibile», poiché –
riteniamo – la sola nozione marxianamente scientifica di sfruttamento
deriva dal concetto di plusvalore (ritenuto infatti «uno degli aspetti
più originali del suo pensiero»), e questo a sua volta discende dal
concetto di «tempo di lavoro necessario», inspiegabile però se si
prescinde dalla teoria del valore-lavoro.15
Teoria
della storia, teoria dello Stato e teoria del valore sono al centro
anche del volume che a Marx ha dedicato Nicolao Merker,16 coniugando
la biografia e l’analisi concettuale. Se per i primi due ambiti
l’Autore risulta persuasivo, rispettivamente confutando la tesi di un
Marx portatore di una filosofia della storia dai tratti deterministici
ed evidenziando quindi oscillazioni e incertezze che accompagnarono la
formazione delle teorie marxiane, nel terzo e cruciale ambito, alla
domanda se il nucleo centrale dell’analisi marxiana – dedicato a valore e
plusvalore – sia ancora valido, Merker fornisce la risposta
argomentata, ma non del tutto convincente che, per quanto in una società
postcapitalistica sarebbe evidentemente eliminata la proprietà privata
in favore di quella collettiva dei mezzi di produzione e di consumo,
con altrettanta evidenza verrebbe conservata la categoria di valore (e
conseguentemente l’esistenza del plusvalore). Pur riconoscendo la
contraddizione fondamentale del capitalismo nella tensione tra il
carattere necessariamente sociale della produzione e il carattere
privatistico (di classe) dell’appropriazione dei frutti del lavoro,
Merker sostiene che essa non riposerebbe sul plusvalore, perché «in
qualunque sistema […] sempre e ovunque la forza-lavoro produce, tradotto
in merci, un plusvalore, ossia un valore maggiore di quello ch’essa
consuma».17 Tesi
che in un contesto di recupero marxiano risulta sorprendente, in primo
luogo poiché proprio il Marx critico di Proudhon aveva contestato ogni
tentazione di ‘eternizzare’ le categorie dell’economia politica
(negando a priori l’ipotesi che «la “emancipazione umana generale”
consista nel ripristinare le qualità naturali-umane degli elementi del
processo di produzione, nel liberarle dalle distorsioni privatistiche
subìte durante le epoche di lotta di classe che hanno segnato la storia
dell’umanità»);18 in
secondo luogo, poiché sembra cancellata la fondamentale distinzione
marxiana tra valore di scambio e valore d’uso (depositario materiale del
primo), dove la forma-valore è inestricabilmente legata a un rapporto
sociale storicamente determinato, quello che caratterizza il modo di
produzione capitalistico: di quale significato del «valore» parlare in
una formazione storica postcapitalistica, caratterizzata da rapporti
sociali del tutto differenti?
L’aspetto
migliore dell’insieme di questi lavori è di presentare un
rivoluzionario socialista che tra arretramenti, errori, fughe in avanti,
tentò di collocare su basi scientifiche una politica universalistica
di emancipazione, di riscoprire cioè la direzione di Marx in
luogo di un sistema che è invece esistito soltanto ad opera dei
marxismi successivi. Quel che paradossalmente ne vien fuori è che
proprio da voci filosofiche si ribadisca e si intenda valorizzare la
non-sistematicità del pensiero marxiano quale antitesi al modo classico
di filosofare. Una boccata d’aria dopo decenni di scolastica
«marxista-leninista», ma anche una mossa difensiva che sembra aver
introiettato la dittatura della filosofia analitica anglosassone.
Il
che permette di introdurre i nuovi studi sulla problematica
collocazione del sapere filosofico in Marx. Una ricognizione che da
singoli aspetti è approdata a una monografia complessiva è stata offerta
da alcuni volumi in sequenza proposti da Diego Fusaro:19 se
è meritorio l’intento di delineare un Marx filosoficamente più
rilevante, a prezzo però di attribuirgli una filosofia della storia
«antihegeliana» attraverso un uso non sempre persuasivo di Benjamin,
l’accostamento del metodo aperto marxiano all’ermeneutica gadameriana
mediata da Vattimo suscita qualche perplessità.
Il
lettore filosoficamente interessato troverà invece sempre nuovi spunti
in quella sorta di opera a dispense periodiche che sul rapporto tra
Marx, il marxismo e la filosofia viene conducendo da oltre un ventennio
Costanzo Preve.20 Se
il limite di una lunga tradizione di studi, anche di autori trattati
in quest’articolo, è di valorizzare Marx anche contro la filosofia, la
posizione di Preve è per contro quella di valorizzare la filosofia
anche contro Marx, senza per questo rompere con il lascito marxiano –
con cui infatti conduce un inesausto confronto – ma al più con la vulgata marxista, non senza eccessi polemici. Partito da premesse in qualche modo ‘althusseriane’ per il rifiuto di un Soggetto della
storia (soprattutto se individuato nella classe operaia), Preve è
attualmente giunto ad una ridefinizione in chiave antropologica del
comunismo come erede della forma-pòlis greca classica, la cui
natura comunitaria renderebbe possibile un’elaborazione veritativa
dell’esistenza umana attraverso l’inesauribile veicolo del dialogo
filosofico. Il confronto con Marx verte perciò sul congedo di
quest’ultimo dalla filosofia tradizionalmente intesa, interpretato
dialetticamente come cedimento al paradigma utilitaristico della
modernità, ma al tempo stesso come condizione per la nascita di quella
nuova disciplina che è la critica dell’economia politica, al cui centro
sta l’unione inscindibile di teoria del valore e dell’alienazione, cioè
di riduzione economicistica della natura generica dell’essere umano (Gattungswesen)
ad ente fornitore di prestazioni quantificabili. Gli accenti
heideggeriani di questa disamina vengono radicalizzati in una
decostruzione della genealogia filosofica convenzionale – che faceva
perno sulla categoria di materialismo, qui debitamente smontata –
culminante nella connotazione di Marx come «idealista naturalista»,
indagatore di una natura umana reale in cerca dell’incontro col suo
concetto, e perciò terzo e ultimo nella lista dei grandi idealisti
tedeschi, dopo Fichte e Hegel.
Una
prospettiva simile, ma orientata verso una problematicità militante,
anziché verso una consapevole iconoclastia, è rintracciabile nel
filosofo Roberto Finelli, il cui studio Un parricidio mancato ridiscute
il rapporto di Marx con Hegel (anche attraverso l’uso di categorie
psicoanalitiche), per approdare a un «marxismo dell’astrazione», che
proprio nel Capitale individua l’opera filosoficamente matura di Marx, e per ragioni diametralmente opposte a quelle althusseriane.21 Se
infatti la produzione del giovane Marx rivelerebbe, in luogo del tanto
celebrato passaggio dall’idealismo al materialismo, un’incapacità di
effettiva emancipazione dal Maestro; se anzi le rispettive teorie della
soggettività mostrano un soggetto che per Hegel si costituisce
pienamente solo nel rapporto con l’alterità, mentre per Marx conserva
una primordiale natura organicistica, la rimozione della dimensione
singolare dell’essere umano avrebbe originato un felice paradosso: che
proprio l’indifferenza verso la storia dei singoli avrebbe permesso a
Marx di approdare a una teoria scientifica del capitale, «il vero
soggetto della modernità», che nel suo movimento ignora e schiaccia i
soggetti individuali.22 L’elaborazione
del lutto per la sconfitta politica del Quarantotto avrebbe quindi
condotto all’abbandono della precedente «metafisica del soggetto»,23 trasformando
il tentativo di «parricidio» in un rapporto maturo con il Maestro e
permettendo cosi al Marx critico dell’economia politica di approdare a
un diverso paradigma scientifico, fondato su un criterio ‘idealistico’
di verità come articolazione delle parti nel tutto, ma appunto depurato
da ogni residuo di metafisica. È quel che Finelli definisce nei termini
del «circolo epistemologico del presupposto-posto»: come la verità del
concetto sta per Hegel in un processo dialettico, che prevede la
sussunzione dell’intera realtà sotto di sé, così il capitale, quale
soggetto principe della modernità, è un’astrazione reale in quanto si
appropria di tutti i suoi presupposti esterni trasformandoli in propri
prodotti.
La
mai esaurita questione del rapporto tra Marx e Hegel è stata inoltre
ripresa da Roberto Fineschi – qui già menzionato – nel suo studio su Marx e Hegel,
un contributo di taglio squisitamente filologico, ma opportunamente
finalizzato a definire lo statuto epistemologico della critica
dell’economia politica operante nel Capitale.24 Una
declinazione solo disciplinarmente diversa della medesima problematica
è quella del rapporto tra comunismo e libertà, organicismo ed
individualismo, che Ernesto Screpanti, raccogliendo alcune suggestioni
del marxismo analitico nordamericano, ha proposto in uno studio
orientato alla ricerca di un «comunismo libertario», che in verità sembra coincidere con una declinazione radicale di democrazia sostanziale.25 Appare
perciò discutibile fondare questa prospettiva sull’opera di Marx, che
infatti non viene spezzata in due soli tronconi (come nella distinzione
althusseriana tra il giovane filosofo idealista e il maturo scienziato
sociale), ma ulteriormente sezionata attraverso la «ricostruzione
selettiva» di un’inedita teoria della liberazione, in base alla
convinzione che solo il «nucleo scientifico» del Marx critico
dell’economia politica sia ancora vitale, e che pertanto vadano espunte
dal suo pensiero tutte «le componenti che si trovano con esso in
contrasto»:26 l’idealismo,
il determinismo, la filosofia della storia, il richiamo alla morale,
contenuti nelle opere pre-scientifiche, che però Screpanti stesso non
rinuncia talvolta a utilizzare.
Un’assoluta estraneità di Marx a qualsiasi tentazione organicistica è ancora sostenuta da Luca Basso nel suo Socialità e isolamento:27 prediligendo il termine «singolarità» ad «individualità» e impiegando argomenti tratti dalle prime opere sino ai Grundrisse,
si evidenzia che nella prospettiva marxiana non c’è né organicismo
olistico né individualismo atomistico, bensì un tentativo di
«coimplicazione» dei diversi elementi. Al di là dei mutamenti di
prospettiva, pur riconosciuti, sarebbe questo il motivo di continuità
nell’opera marxiana: la tensione fondamentale alla realizzazione
individuale nel collettivo.
Da
una ricognizione svolta attraverso l’uso delle categorie temporali del
pensiero politico moderno occidentale muove, per parte sua, il volume
di Massimiliano Tomba Strati di tempo,28 che
prende le mosse da una minuziosa ricostruzione della genesi del
marxiano «materialismo pratico» (opportunamente distinto da una
filosofia della storia d’impianto metafisico e dallo svolgimento lineare
e progressivo) per individuare la molla della storiografia marxiana
(mirabilmente esemplificata dal 18 Brumaio di Luigi Bonaparte) in
un atteggiamento mentale non descrittivo, ma performativo, e cioè
parte in causa in una lotta in corso. Lotta che, con ulteriore
passaggio teorico, viene ricondotta ad una temporalità dei vinti
radicalmente ‘altra’ da quella dei vincitori, in un affresco dove il
Marx ‘scientifico’ del Capitale e quello ‘politico’ che studia
la comune agricola russa sono collocati lungo un asse di ricerca
unitario volto a individuare un tempo distinto da quello astratto della
produzione capitalistica. Una proposta suggestiva e passibile di
ulteriori sviluppi, nella prospettiva certo ambiziosa e tutta da
verificare di coniugare il Marx maturo con gli studi culturali
‘postcoloniali’ per il tramite della critica benjaminiana al concetto
di progresso e, più da vicino, della lezione dell’operaismo nella
versione di Panzieri e della critica culturale di Pasolini e Fortini.
La
connessione tra l’elemento critico e quello politico della critica
dell’economia politica marxiana sembra invece passare per il recupero
della nozione di lavoro vivo, già fondamentale per le interpretazioni in
chiave operaistica degli anni Sessanta e Settanta. La componente più
politicamente radicale di quella scuola – che ormai passa per
post-operaistica – ha continuato negli anni ad elaborare studi, spesso
di grande interesse e carica innovativa anche se talvolta inficiati da
compiacimenti linguistici (quasi che l’uso insistito di un vocabolario
per iniziati potesse proteggere la ridotta comunità di resistenti da un
mondo esterno di cui si sancisce con depressione l’onnipotenza o con
presunzione l’obsolescenza). Si può vedere in proposito, di Antonio
Negri, Christian Marazzi, Sandro Mezzadra, Paolo Virno e altri, un Lessico marxiano,
esito di una serie di seminari svolti in seno alla Libera Università
Metropolitana con l’obiettivo di assumere il significato originario di
parole-chiave della teoria sociale di Marx per metterle alla prova nel
presente.29
Un
approccio del tutto diverso allo stesso tema e che non fa sconti ai
digiuni di economia arriva invece da Riccardo Bellofiore, che in una
vasta messe d’interventi ha riproposto nel lavoro vivo il concetto
fondante la nozione di sfruttamento in chiave non esclusivamente etica.
La riaffermata qualifica dell’opera marxiana come scienza sociale
complessiva permetterebbe di tematizzare la «costituzione monetaria del comando capitalistico sul lavoro vivo, e della lotta delle classi innanzi tutto nel cuore della produzione».30 Tuttavia,
il processo di valorizzazione del capitale non atterrebbe soltanto
alla sfera della produzione, come mostra l’analisi del lavoro vivo tra i
due momenti essenziali che coinvolgono il mercato, prima attraverso
l’acquisto della forza-lavoro, poi con la realizzazione del plusvalore.
Il modo in cui concretamente è dato ai capitalisti di utilizzare quella
speciale merce che è la forza-lavoro è indice del comando
capitalistico sul processo di lavoro, da cui consegue il ruolo della
lotta di classe nella valorizzazione del capitale, in forma di
antagonismo o subalternità dei lavoratori.31
Una
prospettiva originale sul nesso tra critica dell’economia politica ed
emancipazione sociale viene da Gianfranco La Grassa, che, con modalità e
tempi analoghi a Preve, da molto tempo va conducendo un’impegnativa
opera di ‘decostruzione’ del marxismo (senza riverenze neppure per il
padre fondatore), ora approdata, dal modello interpretativo del
«capitalismo lavorativo», a quello del «conflitto strategico». Ne Gli strateghi del capitale32 e in Due passi in Marx,33 l’Autore
ricapitola meriti e (soprattutto) limiti di un’impresa teorica di cui
intende riconoscere i caratteri della scientificità (inclusi
fallibilità e superamento), a partire da due punti critici. Il primo,
che per Marx il modo di produzione capitalistico sarebbe
strutturalmente fondato sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione, quando invece il suo nucleo andrebbe cercato non
nell'elemento giuridico della proprietà, e neppure in quello economico
della superficie mercantile, ma nell'articolazione del processo
produttivo, nelle dinamiche di processi di lavoro che riproducono in
forma storicamente specifica ruoli dominanti e subordinati. Il secondo,
consequenziale, che Marx avrebbe inteso fondare «l'intera dinamica
sociale sulla teoria del valore, sulla mera acquisizione da parte dei
dominanti […] del pluslavoro dei dominati, pur nella forma specifica
del plusvalore», rivelando così di essere ancora prigioniero di
un'impostazione finalistica per cui la dinamica strutturale avrebbe
polarizzato la società tra una classe parassitaria e numericamente
sempre più esigua ed una di lavoratori collettivi cooperativi divenuti
sempre più consapevoli e pronti ad integrare anche quel patrimonio di conoscenze impiegate nella produzione definite general intellect.
Al di fuori di quest'illusione finalistica, non esisterebbe alcun
limite naturale alla multiforme accumulazione capitalistica, né alcuna
formazione endogena di un soggetto rivoluzionario; da cui una
rivalutazione della posizione leniniana sulle potenzialità
rivoluzionarie aperte dalle lotte tra gruppi di potere dominanti. In
generale, l'Autore intende riqualificare criticamente la tessitura
'politica' del discorso marxiano, ben sintetizzata nell'affermazione che
«il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale» discutendo
l'apparente primato dell'economico, in forma di determinismo nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica e
di sostanzialismo nella teoria del valore monetario come «lavoro
incorporato». La proposta in positivo di una teoria del conflitto
strategico per la supremazia su scala mondiale presenta peraltro due
difficoltà: sul piano teorico, la tendenza a sfumare la specificità
storica del modo di produzione capitalistico, una volta semplicemente
sostituita, e non variamente articolata, la centralità della categoria
di merce con quella di riproduzione di rapporti sociali subordinati; sul
piano politico, la resa all'amara diagnosi della non-rivoluzionarietà
delle classi dominate, le cui pur legittime lotte di resistenza
potrebbero avere esito rivoluzionario soltanto se favorite o addirittura
promosse da scontri tra i soggetti sociali dominanti.
Apparentemente
simile nel metodo generale, di disamina critica del lascito teorico in
funzione di una nuova declinazione politica, è il volume che Guido
Carandini ha dedicato ad Un altro Marx34 e che tuttavia assume il significato profondamente diverso di riportare il dimenticato autore del Capitale nell’agenda
politica delle risposte riformistiche alle dinamiche di lungo periodo
dell’economia capitalistica su scala mondiale. Operazione che viene
affrontata con alcune semplificazioni, o scientificamente inaccettabili
(la fittizia intervista a Marx redivivo con cui il volume si apre) o
già ampiamente discusse e confutate nella comunità degli studiosi (il
peso dell’eredità messianica nella previsione pseudo-scientifica di un
inevitabile avvento del comunismo). Il lettore avveduto può nondimeno
cogliere l’opportunità di riscoprire per contrasto alcune semplici, ma
decisive verità: in primo luogo, che Marx non ha mai inteso scrivere un
trattato di economia politica (fornito di relative ricette ‘di fase’),
ma fare (e per tutta la vita) critica dell’economia politica, e
cioè critica del modo in cui la società capitalistica si legge
attraverso la scienza dei dominanti; in secondo luogo, che la tanto
vituperata teoria del valore (che nella versione marxiana si regge sulla
distinzione tra lavoro e forza-lavoro) non è uno strumento di
contabilità economica, ma il luogo teorico in cui si compie il gesto
‘politico’ di dare spazio allo sfruttamento del lavoro umano; infine,
conseguentemente, che non può esistere ‘scienza’ in senso marxiano senza
che la teoria accolga le dimensioni della conflittualità soggettiva e
della trasformabilità oggettiva – finendo per sussumerle
‘speculativamente’ nell’articolazione del tutto.
Si
può così concludere questa rassegna attorno al tema di un Marx
irrinunciabilmente politico, in quanto le sue analisi permettono di
svelare un mondo sociale articolato su rapporti di forza. Non è un
elemento scontato, poiché la riscoperta attualità dell’analisi marxiana,
in assenza o in latenza di forze politiche e sociali portatrici di
lotte radicali e non resistenziali, tende ad un ‘marxismo della
cattedra’, come già ne esistettero in passato, sovente ad uso di un
intento ‘modernizzatore’ anziché rivoluzionario. Un’acquisizione
tuttavia universalmente raggiunta – e si tratta di un’acquisizione
decisiva –
è la distinzione tra Marx e il ‘marxismo’, anche da parte di studiosi
che li avevano precedentemente identificati o commisti, qualsiasi
definizione e qualsiasi valutazione di ‘marxismo’ si voglia dare. Da un
lato, infatti, i diversi marxismi sono stati tentativi di sintesi
necessariamente instabili di un patrimonio che aveva il pregio di essere
aperto, ma il problema di esserlo in troppe direzioni. Lo sforzo di
sistematizzarlo esprimeva il bisogno pratico e non soltanto
manipolatorio di farlo agire nella lotta politica, ed è questo che rende
tutti i marxismi in qualche misura legittimi. Un rinnovato confronto
con Marx può essere importante per il presente se accetta di mettere in
scena un confronto triangolare tra il Marx storico, i marxismi
storicamente esistiti e una possibile teoria della trasformazione
politica e sociale, affrancata dalla sterile nostalgia o dalle mode
provvisorie, che sarà inevitabilmente cosa diversa da entrambi i
predecessori, ma di cui non potrà non condividere l’intenzione
fondamentale di liberazione.
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