Alla fine ci siamo arrivati
anche in Italia. Un uomo armato si è barricato negli uffici
dell’agenzia incaricata di riscuotere le imposte, prende degli ostaggi,
denuncia la propria condizione, arrivano i carabinieri
con i passamontagna, ore di trattative e poi, fortunatamente,
conclusione non drammatica della vicenda.
Quanto accaduto giovedì in un paese del bergamasco – terra leghista
per eccellenza, qualcosa significa – è indicativo del clima politico e
sociale del paese. L’autore del gesto clamoroso all’Agenzia delle
Entrate si chiama Luigi Martinelli, ha 54 anni, è un ex piccolo
imprenditore che si era visto arrivare la cartella esattoriale con le
imposte arretrate da pagare. Un caso limite? Niente affatto. Al suo
posto potevano esserci benissimo qualche altro milione di persone in una
condizione simile.
Il gesto in sé è emblematico di una condizione di disperazione
individuale. La sola differenza è che stavolta, invece di suicidarsi -
come sta accadendo troppo spesso - ha individuato a suo modo cause,
responsabilità, obiettivi e una presunta soluzione “definitiva”.
Il problema è -come nei suicidi - la dimensione individuale del
gesto, la rimozione del fatto che esiste un problema comune e
collettivo, con tante altre persone in condizioni simili; che gli
apparati dello Stato sono in grado di gestire tranquillamente sia la
situazione d’emergenza (con l’arrivo dei corpi speciali addestrati per
casi come questi), sia la lettura disperante del gesto individuale.
Cambiamo scenario, ma rimaniamo nella Padania profonda.
La Lega sta mobilitando alcune centinaia di suoi sindaci e
amministratori contro il pagamento dell’Imu, la nuova tassa sulla casa
che riprende l’Ici, la rivaluta del 60% e accorpa altri mini-tributi
locali. Concretamente farà poco o niente, forse, ma intanto assume su di
sé la rappresentanza degli interessi e delle doglianze di tutti coloro
che si sentono perseguitati e umiliati dall’arroganza del governo e
dall’inflessibilità dei suoi esattori.
E’ probabile che chi vorrà intimidire la Lega userà il sig.
Martinelli come una clava segnalando i pericoli che derivano da certi
inviti alla disobbedienza fiscale. Dal canto suo, la Lega potrebbe fare
del sig. Martinelli l’uomo simbolo di una esasperazione reale che si
respira nei distretti industriali, una volta fiore all’occhiello del
“piccolo è bello”, che la crisi sta facendo a pezzi e che la ritrovata
rigidità impositiva dello Stato sta privando anche della “leva” più
immonda, l’evasione fiscale.
Questo cortocircuito tra lo Stato coercitivo e pezzi di società cui
il cielo è caduto sulla testa, vede un convitato di pietra: l’assenza di
conflitto sociale organizzato e di movimenti collettivi all’altezza
della sfida. Una dimensione che diventa impossibile da sostenere se non
entrano in campo soggettività organizzate capaci di raccogliere la
disperazione individuale e trasformarla in azione collettiva in gardo di
modificare le cose.
E’ francamente impressionante la latitanza politica delle forze della
“sinistra ufficiale” nel nostro paese. Lasciano il campo completamente
aperto alle soggettività organizzate di segno reazionario (Lega,
fascisti, PdL), rinunciando del tutto alla pratica del conflitto e alla
ricomposizione di un fronte politico e sociale.
Viene da chiedersi: cos’è che inchioda gli uomini e le donne della
“sinistra” a questa inerzia di fronte alle contraddizioni macroscopiche
che stanno investendo il nostro blocco sociale di riferimento?
1) La paura del populismo, in
realtà lo sporcarsi le mani con le contraddizioni reali, così come
vengono emergendo. Si preferisce ritirarsi sui territori consueti (da
quello del sindacato tradizionale a quelli della indefinita “società
civile”), a rimuginare eternamente sulle sconfitte subite senza mai
trovare una via d’uscita e limitandosi ad essere testimoni – non soggetti attivi – del conflitto sociale così come si viene delineando in questa fase della crisi.
2) Il venir meno della condizione istituzionale.
Da quando nel 2008 la sinistra è stata messa fuori dal parlamento, non
c’è stata alcuna riflessione seria sul fatto che la “politica” potesse e
dovesse agire in condizioni del tutto extraparlamentari. Si continua ad
agire con la testa rivolta all’indietro e con la nostalgia di una
condizione che per molto tempo potrebbe non essere riproducibile. Non
solo. Ci si avviluppa in tatticismi estremi, in condizione di totale
subalternità, con la speranza che un’alleanza spuria con il Pd possa
essere risolutiva per un ritorno… al passato. Inutile ricordare quel che
anche Monti e Bersani ripetono ogni giorno: non avverrà.
3) Una mentalità che ha rimosso il cambiamento politico e
sociale come prospettiva. Il capitalismo appare così immutabile ed
insostituibile. Nella migliore ipotesi ci si arrovella su ipotesi
talmente “ragionevoli” da essere ritenute valide anche dall’avversario
di classe, a volte, per affrontare la sua crisi. Non proprio
“alternative”.
Che fare dunque? In primo luogo, unire le forze su alcuni punti
nitidi del conflitto di classe: dal non pagamento del debito alla
nazionalizzazione delle banche, dal sottrarsi ai diktat dell’Unione
Europea all’indipendenza politica dai partiti che sostengono il governo
Monti.
In secondo luogo non lasciare alle forze reazionarie l’egemonia sulla
protesta sociale, impugnando - ad esempio – anche la lotta contro il
pagamento dell’Imu, costringendo i sindaci e gli amministratori
“benicomunisti” alla coerenza, sia sull’Imu che sulla privatizzazioni
dei servizi pubblici locali; praticare la disobbedienza e la resistenza
contro Equitalia e le banche, amplificando la contraddizione tra
amministratori locali che godono comunque di un mandato popolare e un
governo golpista che questo mandato lo ha ottenuto solo dalla Bce e dal
Quirinale. E’ un percorso difficile, doloroso, lacerante? Vero,
verissimo. Ma è anche vero che, senza un rovesciamento del tavolo e
delle regole, il governo Monti, la Bce e le banche guideranno sempre la
partita.
Non è più la stagione degli inciuci o del “consociativismo”, quella
melassa che garantiva (quasi) a tutti un posto a tavola. È la stagione
dei tagli. Per chi sta a sinistra ce n’è uno da farne, nemmeno troppo
doloroso, rispetto alla storia recente.
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