Esplode la battaglia nella Cgil, dopo un
giudizio della segreteria confederale sulla controriforma del mercato
che lavoro che non è stato discusso nemmeno dalla segreteria stessa.
Un giudizio "complice" nel senso che dava alla parola Sacconi
quando era ministro. Dire che nel ddl in discussione in Parlamento ci
sono "luci e ombre" significa dire "approvatelo pure, non ci opporremo".
Si trattasse solo di un cattivo accordo ci sarebbe da incazzarsi. Ma in
quella controriforma, come ben sanno i nostri lettori, c'è il
riovesciamento completo del diritto del lavoro elaborato nel dopoguerra
grazie alle lotte di decine di milioni di lavoratori, decine di morti
uccisi in piazza dalla polizia, migliaia di anni di prigione per
sindacalisti, operai, contadini, studenti.
C'è la decretazione autoritaria dell'impossibilità di fare
liberamente sindacato, trasformando la condizione del singolo lavoratore
in schiavo senza dirtitto di parola.
Non è davvero un caso che un giudizio così infame sia stato elaborato
non si sa bene da chi. Da Susanna Camusso, certamente, ex socialista
craxiana per una vita insieme ai Sacconi, Cicchitto, Brunetta, ecc. Ma
nemmeno Nicola Nicolosi, membro della segreteria e coordinatore
dell'area intera alla maggioranza congressuale di Rimini (non un
"oppositore duro e puro", insomma), era stato coinvolto nella
discussione. Come se la Cgil fosse ormai guidata da un satrapo asiatico
di qualche secolo fa.
Completamente all'oscuro anche i segretari generali delle categorie
più importanti, quelli che devono fare i conti tutti i giorni con una
base incazzata, impaurita, disorientata ma non rassegnata. C'è dunque un
problema di merito (il giudizio su una legge che uccide il sindacato
come funzione, indipendentemente dalle sigle), ma ce n'è un altro -
enorme - di democrazia, addirittura nelle strutture di vertice del più
grande sindacato italiano (ai lavoratori, come da oltre 30 anni avviene,
si dirà qualcosa solo a giochi fatti...).
Ogni salto di qualità di questa portata segna una fine e un inizio.
E' la fine della Cgil "a metà del guado", sempre scissa tra
rappresetanza più o meno efficace dei lavoratori e "responsabilità
politica nei confronti del paese". La riva del collaborazionismo è
infine raggiunta. Nottetempo, in una riunione tra sei o sette memebri
della segreteria confederale, come congiurati in casa altrui.
E' l'inizio - possibile, non certo - di una ribellione interna a quell'organizzazione.
Ma è anche un inizio per altre formule organizzative, altre
piattaforme, nuove configurazioni. L'assemblea dei delegati di ieri a
Roma, per una fortunata e imprevedibile coincidenza, è piovuta proprio
nello stesso giorno della resa della Cgil.
La strada per un totalmente nuovo sindacato di classe è lunga, non
c'è da farsi illusioni, Sarà contrastata con ogni mezzo e ogni media. Ma
anch'essa ha fatto ieri un primo salto di qualità. Che un pezzo
importante della stessa Cgil abbia cominciato a praticare un percorso di
lotta comune insieme ai sindacati di base che meglio hanno intuito la
rottura istituzionale conseguente all'irrompere del "modello
Pomigliano", è un fatto decisivo. Può aprire una nuova storia, se saprà
marciare con decisione e intelligenza, con un occhio ai grandi scenari e
uno alle trappole che certo saranno piazzate sul suo cammino.
E' comprensibile che molti altri settori della Cgil, ma anche di
altri sindacati di base, non abbiano ancora maturato piena
consapevolezza di un quadro "strategico" mutato (avere o no l'art. 18 a
protezione di lavoratori e sindacalisti cambia tutto; avere o no
ammortizzatori sociali "lunghi" per gestire le crisi aziendali, anche;
poter eleggere i propri delegati oppure no cambia radicalmente la natura
del "delegato", trasformandolo in "fiduciario" dell'azeinda oppure in
un "clandestino" tra i dipendenti).
E' comprensibile, ma superabile. Di fatto l'assemblea di ieri crea le premesse per un'alternativa sindacale vera.
I sindacati di base fin qui sono stati un'alternativa, troppo spesso
però ridotta a singoli comparti, senza mai assurgere ai compiti e
assumere la capacità di visione propria di un sindacato generale credibile anche agli occhi della massa dei lavoratori italiani.
Che questa alternativa cominci ad apparire era un passo necessario.
La "fortunata coincidenza" con lo squacquaramento della segreteria Cgil
non poteva esser simbolicamente più illuminante.
Postiamo qui gli articoli che il manifesto ha dedicato ai due eventi. Il quadro che ne emerge non potrebbe essere più chiaro.
Cgil, è scontro aperto
Sara Farolfi, Il Manifesto
È polemica in Cgil
dopo la pubblicazione sul sito dell'organizzazione di una nota della
segreteria che, commentando il testo del disegno di legge sul mercato
del lavoro, annota «diverse novità positive» pur a fronte di «alcuni
peggioramenti».
La segretaria di una
delle categorie più 'pesanti' all'interno della confederazione, il
pubblico impiego, a 24 ore dalla pubblicazione della nota ancora non ne
sapeva nulla. Uno dei membri della segreteria, Nicola Nicolosi, accusa:
«Questo comunicato non è stato discusso».
Ma è soprattutto sul
merito della nota che si appuntano le critiche dei segretari di
importanti categorie. «Io vedo più ombre che luci, quello del governo è
un testo deludente e pericoloso», commenta Mimmo Pantaleo che in Cgil
guida la federazione dei lavoratori della conoscenza, «ci sono tagli
pesanti ai diritti, nessun vero allargamento degli ammortizzatori
sociali, un'accentuazione della precarietà e sull'articolo 18 è stata
fatta una mediazione inaccettabile, che rende una chimera la possibilità
del reintegro».
Nella nota della
segreteria vengono giudicate positivamente alcune misure: il compenso
dei collaboratori a progetto che non può essere inferiore ai minimi
salariali dei lavoratori subordinati e le «presunzioni di
subordinazione» per il lavoro precario, cose che messe insieme, secondo
il sindacato, «pongono le premesse normative per un'importante opera di
pulizia del mercato del lavoro dalle forme elusive di ricorso al lavoro
autonomo e insieme di tutela efficace dei redditi per le collaborazioni
genuine».
La Cgil annuncia
l'intenzione di «presidiare» la discussione della legge sia al Senato
che alla Camera perchè «si è ancora in presenza di un testo che
necessita di importanti modifiche». Sei sono i punti su cui il sindacato
avanza una richiesta di cambiamento: il nodo dei contratti a termine
per i quali viene meno l'obbligo di causale; il lavoro intermittente; la
stretta sulle partite Iva che esclude dalla «presunzione di
subordinazione» chi guadagna 18 mila euro all'anno, ossia 700 euro al
mese; l'universalizzazione degli ammortizzatori sociali; e la rimozione
della retroattività del licenziamento in caso di esito negativo della
procedura di conciliazione.
Gianni Rinaldini,
coordinatore dell'area di opposizione «la Cgil che vogliamo», definisce
la nota «sconcertante e incredibile». «È l'impianto legislativo di
Maroni del 2001, quello contro il quale la Cgil si è aspramente battuta,
si riparte dal lavoro a termine senza causali e ritorna persino il
lavoro a chiamata, senza nemmeno la chiamata perchè basta un sms». Tra
l'altro, nota Rinaldini, le tipologie contrattuali precarie restano
tutte, senza nessun allargamento degli ammortizzatori sociali, perchè il
diritto all'Aspi si matura dopo 52 settimane di contributi: «Se questa è
la posizione della Cgil, il sindacato sta avallando un'operazione che
contiene tutti i nodi che nel passato erano stati contrastati, e non
solo sull'articolo 18».
«È il ritorno di una
concezione neocorporativa», dice Nicola Nicolosi, membro della
segreteria confederale. Nicolosi punta il dito soprattutto contro una
delle ultime modifiche al testo che, in materia di appalti, abolisce di
fatto «la responsabilità in solido» che grava sulla ditta appaltatrice
qualora l'appaltante non rispetti leggi e diritti. «Hanno stabilito che
sarà il contratto collettivo firmato da sindacati e imprese a definire
le regole di controllo per le ditte che prendono appalti», spiega, «che
vuol dire che quel che fino a oggi ha fatto la legge, dovranno farlo le
parti sociali, siamo all'assurdo».
Più cauta nei
giudizi, ma in sintonia nella sostanza delle critiche, anche Rossana
Dettori, segretaria dei pubblici della Cgil, vede più ombre che luci.
«Bisogna mettere in campo inziative per cambiare il testo di legge,
mettendo in conto, se nulla dovesse cambiare in Aula, anche lo sciopero
generale». Anche Mimmo Pantaleo converge sulla necessità di una
mobilitazione generale. Per il momento dentro l'organizzazione si
aspetta la manifestazione proclamata insieme a Cisl e Uil del 2 giugno,
«un momento importante» convergono tutti i segretari di categoria
interpellati, ma dopo il 2, senza migliorìe al testo, la pressione per
una mobilitazione generale salirà.
E in testa ci sarà la
Fiom, reduce dall'assemblea fiorentina che al centro aveva proprio la
difesa dei diritti del lavoro messi in discussione dalla legge del
governo.
Serve «un'altra unità» che rompe le barriere
Francesco Piccioni, Il Manifesto
Quale sindacato, da qui in poi? Le sofferenze della Cgil - inchiodata
al tentativo di recupero dell'«unità sindacale» con Cisl e Uil -
sembran aumentare col prolungarsi dell'immobilismo di fronte a una
«controriforma» del mercato del lavoro che da martedì sarà in votazione
al Senato. A meno che alla Fiom non riesca uno di quei colpi di genio di
cui, fin qui, si è dimostrata spesso capace. Ma se si deve guardare al
futuro disegnato dal combinato disposto pensioni-mercato del
lavoro-ammortizzatori sociali, il bisogno di ridisegnare ruolo e
funzioni del sindacato esce allo scoperto come problema non più
rinviabile.
L'assemblea nazionale di ieri mattina a Roma, all'Ambra Jovinelli, ne
è stata a suo modo una prima dimostrazione. Centinaia di delegati di
quasi tutte le categorie, ma non una banale - e sempre frustrata -
«autoconvocazione». Qui c'erano pezzi importanti della Cgil
(Rete28Aprile, soprattutto) e dei sindacati di base (Usb, Snater,
Unicobas, ecc). Perché la presenza o meno di «organizzazioni
strutturate» fa sempre la differenza, in materia di lotta sindacale. Un
«moto dal basso» che viene accompagnato anche dall'«alto», da gruppi
dirigenti ormai consapevoli della necessità di «rompere le barriere» tra
organizzazioni e visioni contrastanti, da consegnare al passato («la
concertazione è finita anche per chi se n'era avvantaggiato»). E che
accomuna tute blu e pubblico impiego, ferrovieri e Alitalia, insegnanti e
senza casa.
Il dirigente più noto in sala è il sempre bastian contrario Giorgio
Cremaschi, una vita della Fiom Cgil. «Bisogna anche cambiare linguaggio -
spiega - L'unità sindacale di cui si parla è quella tra Cgil, Cisl e
Uil, che da molti anni ha portato soltanto disastri per chi lavora». Non
si tratta, ricorda a chi l'ha criticato - specie in Cgil - di «andare
in un'altra organizzazione», ma di «trovare un'altra unità, quella
fondata sul sindacalismo antagonista e la partecipazione dei delegati».
Altrimenti questi ultimi - come accade sempre più spesso - vengono
«ridotti a fiduciari delle diverse organizzazioni»; o, come nella Fiat
di Marchionne, addirittura «fiduciari dell'azienda» (gli iscritti a
Fismic e Assoquadri).
Il «linguaggio» sembra una preoccupazione da intellettuali, ma in un
mondo dove le parole significano quasi sempre l'opposto (basti pensare a
«riforme», per dirne una) il problema esiste. E non è strano che sia un
giurista del lavoro, come Carlo Guglielmi, a insistere sulla parresia
, parola del greco antico che non significa solo «libertà di parola» ma
anche, contemporaneamente, «dovere di dire la verità». Da lui viene
l'invito a fare «come se» il «nuovo sindacato esistesse già, in questa
sala». L'esempio è il Michael Collins che invita gli irlandesi a fare
«come se» gli inglesi non ci fossero, iniziando a vivere secondo le
proprie regole condivise. Un sogno? Non più di quello che spinse il
sindacato italiano - ancora in piena guerra e fino al '47 - ad ottenere
il «blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione, la scala mobile e
la parità salariale nord-sud».
Ma è dalle situazioni - industriali o meno - che arriva la carica a
muoversi. Non perché sia facile («la gente ha paura, attende di vedere e
capire meglio», si ripete in quasi ogni intervento). Un delegato Fiom
di Fincantieri, da Ancona, spiega come hanno fatto ad evitare che 180
«dipendenti diretti» (quasi tutti disabili per motivi di lavoro o
«rompicoglioni» del sindacato) venissero messi fuori e sostituiti con
«disperati dei subappalti, precari, a volte senza permesso di
soggiorno».
Il mondo del lavoro - dentro questi racconti dal vivo - «vive in una
guerra». Commerciale, certo, basata sulla «competitività»; ma dagli
effetti altrettanto esiziali sulle persone. «È ora di dire basta all'era
dei suicidi, è ora di dire basta e ribellarsi». Ma non c'è alcun
estremismo, in queste parole. È prima di tutto un rifiuto a essere
considerati «carne morta», soggetti passivi, merce liquida a
disposizione.
Lo spiega con molta calma Dante De Angelis, macchinista due volte
licenziato da Fs e sempre riassunto «perché c'era l'art. 18». Il bisogno
impellente è «riportare le persone, chi produce, a governare
l'orientamento del paese». Era il «patto sociale inscritto nella
Costituzione», che riconosce al lavoro interessi diversi da quelli
dell'impresa e il diritto a organizzarsi per farli valere. Al contrario,
come altri vedono, c'è «un golpe strisciante che, mettendo in
Costituzione il pareggio di bilancio, pone al posto di comando i
princìpi del libero mercato, nemmeno contenuti prima nella Carta».
L'elenco delle ragioni è molto lungo, ma «il tempo per provare a
resistere è ora». Paolo Leonardi, coordinatore Usb, propone in
conclusione sia una piattaforma di lotta «comune a delegati di sindacati
differenti», sia una prima scadenza. Immediata, di fatto. «Per
difendere l'art. 18 nel suo valore di fondo e nella sua essenza
simbolica, invitiamo tutte le Rsu, le Rsa, le organizzazioni e le aree
sindacali che condividono queste esigenze a organizzare nelle prossime
giornate dell'8 e 9 giugno momenti di lotta: fermate, sciopero, azioni
di protesta, presìdi».
Non è la proclamazione solo di uno «sciopero generale» che si
sa impraticabile, con questi livelli di rappresentatività e
organizzazione. Ma è un primo passo. Gli obiettivi (dal blocco dei
licenziamenti a ripristino della pensione di vecchiaia a 60, dal blocco
delle privatizzazioni al diritto a casa, reddito, servizi, ecc) «se
sembrano incompatibili con il pagamento del debito» - e di certo lo sono
- «diciamo: è il debito che non va pagato». Sta nascendo qualcosa di
nuovo. Ne sentiremo parlare ancora.
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