Tra tutti i pensieri, gli slogan, le parole d’ordine e le riflessioni fatte in merito alla figura di Peppino Impastato, il mio preferito resterà sempre quello striscione apparso nel corteo di Cinisi, il giorno del suo funerale: «Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo».
È un messaggio semplice, in sé. Eppure l’associazione di quelle due
parole – “idee” e “coraggio” – non è messo lì a caso. Le idee, senza il
coraggio, non vanno da nessuna parte. Il coraggio, senza le idee, è
stolto. È pericoloso. È magari bello da guardarsi, ma è finalizzato al
niente. La necessità di un’intera generazione, cioè la mia, è quella di
riuscire a coniugare idee e coraggio. La necessità della sinistra è la
stessa: le idee da una parte, il coraggio dall’altra. L’esempio di
Impastato è lì, e dovremmo custodirlo gelosamente, per dirci che non è
impossibile riuscire in questa impresa.
Le idee di Peppino, per prima cosa. Peppino lottava contro
la mafia. Ma era, ancor prima, un comunista e un rivoluzionario. La
lotta alla prepotenza della mafia era una diretta conseguenza della
propria visione delle cose, della politica, della vita. A distanza di 34
anni non è mia intenzione fare rivendicazioni ideologiche e di parte.
Anche perché allora, citando la canzone di Giorgio Gaber, «chi era
contro, era comunista». Non so la valenza attuale che possa avere
quell’aggettivo, «comunista»; ma certamente, oggi, rimane il dovere
anzitutto morale di «essere contro» e contemporaneamente proporre
un’alternativa di sistema. Essere rivoluzionari sta in questo:
analizzare la società mettendo in discussione anche i ragionamenti che
vengono ritenuti più ovvi. Reputare normale che la vita di milioni di
persone sia legata a indici di borsa, a parole astratte come “spread”,
alle decisioni di enti sovranazionali che non hanno alcun valore a parte
il profitto, è il male che affligge noi stessi, la quasi totalità del
panorama politico, del sistema informativo – e purtroppo di buona parte
della sinistra.
Se oggi Peppino fosse vivo sarebbe un fiero antiliberista.
Continuerebbe a denunciare la mafia, le collusioni tra potere politico e
mafioso. Ma ben sapendo che tutto ciò che si muove su questa terra,
criminalità compresa, sta lì perché parole come “uguaglianza” e
“solidarietà” suonano vuote e perdenti. Perché “fratellanza”, quel
concetto che la Rivoluzione Francese sdoganò nel 1795, è ancora un
miraggio.
Ricordare il passato, le piccole eppure grandi rivoluzioni quotidiane
di personaggi come Peppino Impastato, serve soprattutto a noi giovani
nati e cresciuti in due decenni – gli anni ’80 e gli anni ’90 – che
hanno depurato dalle discussioni pubbliche i valori a cui accennavo
prima. Ci hanno educato all’individualismo, al culto del possesso, della
felicità mediante il consumo, ci hanno insegnato il darwinismo
declinato in salsa nazista, cioè che chi ce la fa va avanti e chi no
resta indietro e pazienza. Ci hanno consegnato un mondo per cui nascere
qui o in Marocco o in Cina non è un caso del destino, ma una fortuna
oppure una colpa da portarsi appresso. E soprattutto, proprio come
accadeva a Peppino, ci raccontano dell’ineluttabilità dell’attuale
sistema. «Ti trovo un lavoro, ti sistemo, basta che smetti di fare il
comunista», diceva il padre di Peppino al figlio. Basta che smetti di
pensare che esista una via d’uscita.
Le idee, appunto. E il coraggio, ancora di più. Il coraggio
per Peppino non è stato solo quello di perdere la propria vita, quel 9
maggio del 1978. Il coraggio è cominciato prima, molto prima. Rivoltarsi
contro i padri, contro le convenzioni sociali, contro il pensiero
dominante è stato un processo lento, faticoso. Provare a cambiare le
cose costa sacrificio, è un impegno personale e diretto che dà risultati
sul lungo periodo.
Anche a questo, soprattutto a me e alla mia generazione, non ci hanno
abituato. Tutto ci è stato dovuto, tutto ci è piovuto dal cielo. E poi –
e ritorno all’esperienza di Peppino Impastato – la famiglia prima di
tutto, intesa però in una concezione di familismo. Il coraggio della
coerenza, del rinunciare a qualcosa pur di portar avanti le nostre idee,
che fine hanno fatto? Allora ci è più facile affidarci al salvatore
della Patria di turno, ci ritroviamo costantemente incazzati ma nel
contempo la pigrizia e la pavidità ci relegano al ruolo di osservatori
distratti e senza voce.
Democrazia Proletaria – il partito di Peppino – oltre venti anni fa
coniò uno slogan che ancora oggi trovo attuale: «Il realismo
dell’utopia». La politica, cioè quella cosa fantastica e a volte sporca
che è il governo delle nostre vite, ha bisogno di utopia. Al momento ci
spacciano solo il realismo, inteso però come il dover accettare
acriticamente le storture e le bugie di un sistema chiamato
“capitalismo”, oppure “liberismo”, oppure come vi pare, che poi non è
altro che un egoismo da uomo delle caverne.
I rapporti di forza non ci avvantaggiano, proprio come succedeva a
Peppino qui a Cinisi. Per questo oggi come allora servono idee e
coraggio insieme. Umberto Santino, il grande amico di Impastato, ha
scritto: «Peppino è stato, o comunque si è sentito, solo dentro la sua
famiglia, nel suo paese, nella sua attività politica, e tutta la sua
vita è lacerata da una rottura originaria e volta a rimarginarla in un
impegno di convivenza con gli altri, sempre rinnovato, fino alla fine,
anche se sempre, o quasi sempre, deluso. Queste cose le ha scritte,
senza pietà, o più verisimilmente con grandissima pietà, per sé stesso e
per gli altri».
Oggi Peppino non c’è più, eppure non è rimasto solo. I frutti del suo
impegno purtroppo non li ha visti, non ne ha goduto, ma ci sono e sono
evidenti: siamo noi, e siamo qui.
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