mercoledì 9 maggio 2012

Con le idee e il coraggio di Impastato, noi continuiamo di Matteo Puccierelli, Micromega

(Qui sotto il testo di un intervento tenuto a Cinisi al Forum Sociale Antimafia “Felicia e Peppino Impastato”, che si svolge ogni anno nella casa di Tano Badalamenti sequestrata alla mafia)  

Tra tutti i pensieri, gli slogan, le parole d’ordine e le riflessioni fatte in merito alla figura di Peppino Impastato, il mio preferito resterà sempre quello striscione apparso nel corteo di Cinisi, il giorno del suo funerale: «Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo».
È un messaggio semplice, in sé. Eppure l’associazione di quelle due parole – “idee” e “coraggio” – non è messo lì a caso. Le idee, senza il coraggio, non vanno da nessuna parte. Il coraggio, senza le idee, è stolto. È pericoloso.  È magari bello da guardarsi, ma è finalizzato al niente. La necessità di un’intera generazione, cioè la mia, è quella di riuscire a coniugare idee e coraggio. La necessità della sinistra è la stessa: le idee da una parte, il coraggio dall’altra. L’esempio di Impastato è lì, e dovremmo custodirlo gelosamente, per dirci che non è impossibile riuscire in questa impresa.
Le idee di Peppino, per prima cosa. Peppino lottava contro la mafia. Ma era, ancor prima, un comunista e un rivoluzionario. La lotta alla prepotenza della mafia era una diretta conseguenza della propria visione delle cose, della politica, della vita. A distanza di 34 anni non è mia intenzione fare rivendicazioni ideologiche e di parte. Anche perché allora, citando la canzone di Giorgio Gaber, «chi era contro, era comunista».  Non so la valenza attuale che possa avere quell’aggettivo, «comunista»; ma certamente, oggi, rimane il dovere anzitutto morale di «essere contro» e contemporaneamente proporre un’alternativa di sistema. Essere rivoluzionari sta in questo: analizzare la società mettendo in discussione anche i ragionamenti che vengono ritenuti più ovvi. Reputare normale che la vita di milioni di persone sia legata a indici di borsa, a parole astratte come “spread”, alle decisioni di enti sovranazionali che non hanno alcun valore a parte il profitto, è il male che affligge noi stessi, la quasi totalità del panorama politico, del sistema informativo – e purtroppo di buona parte della sinistra.
Se oggi Peppino fosse vivo sarebbe un fiero antiliberista. Continuerebbe a denunciare la mafia, le collusioni tra potere politico e mafioso. Ma ben sapendo che tutto ciò che si muove su questa terra, criminalità compresa, sta lì perché parole come “uguaglianza” e “solidarietà” suonano vuote e perdenti. Perché “fratellanza”, quel concetto che la Rivoluzione Francese sdoganò nel 1795, è ancora un miraggio.
Ricordare il passato, le piccole eppure grandi rivoluzioni quotidiane di personaggi come Peppino Impastato, serve soprattutto a noi giovani nati e cresciuti in due decenni – gli anni ’80 e gli anni ’90 – che hanno depurato dalle discussioni pubbliche i valori a cui accennavo prima. Ci hanno educato all’individualismo, al culto del possesso, della felicità mediante il consumo, ci hanno insegnato il darwinismo declinato in salsa nazista, cioè che chi ce la fa va avanti e chi no resta indietro e pazienza. Ci hanno consegnato un mondo per cui nascere qui o in Marocco o in Cina non è un caso del destino, ma una fortuna oppure una colpa da portarsi appresso. E soprattutto, proprio come accadeva a Peppino, ci raccontano dell’ineluttabilità dell’attuale sistema. «Ti trovo un lavoro, ti sistemo, basta che smetti di fare il comunista», diceva il padre di Peppino al figlio. Basta che smetti di pensare che esista una via d’uscita.
Le idee, appunto. E il coraggio, ancora di più. Il coraggio per Peppino non è stato solo quello di perdere la propria vita, quel 9 maggio del 1978. Il coraggio è cominciato prima, molto prima. Rivoltarsi contro i padri, contro le convenzioni sociali, contro il pensiero dominante è stato un processo lento, faticoso. Provare a cambiare le cose costa sacrificio, è un impegno personale e diretto che dà risultati sul lungo periodo.
Anche a questo, soprattutto a me e alla mia generazione, non ci hanno abituato. Tutto ci è stato dovuto, tutto ci è piovuto dal cielo. E poi – e ritorno all’esperienza di Peppino Impastato – la famiglia prima di tutto, intesa però in una concezione di familismo. Il coraggio della coerenza, del rinunciare a qualcosa pur di portar avanti le nostre idee, che fine hanno fatto? Allora ci è più facile affidarci al salvatore della Patria di turno, ci ritroviamo costantemente incazzati ma nel contempo la pigrizia e la pavidità ci relegano al ruolo di osservatori distratti e senza voce.
Democrazia Proletaria – il partito di Peppino – oltre venti anni fa coniò uno slogan che ancora oggi trovo attuale: «Il realismo dell’utopia». La politica, cioè quella cosa fantastica e a volte sporca che è il governo delle nostre vite, ha bisogno di utopia. Al momento ci spacciano solo il realismo, inteso però come il dover accettare acriticamente le storture e le bugie di un sistema chiamato “capitalismo”, oppure “liberismo”, oppure come vi pare, che poi non è altro che un egoismo da uomo delle caverne.
I rapporti di forza non ci avvantaggiano, proprio come succedeva a Peppino qui a Cinisi. Per questo oggi come allora servono idee e coraggio insieme. Umberto Santino, il grande amico di Impastato, ha scritto: «Peppino è stato, o comunque si è sentito, solo dentro la sua famiglia, nel suo paese, nella sua attività politica, e tutta la sua vita è lacerata da una rottura originaria e volta a rimarginarla in un impegno di convivenza con gli altri, sempre rinnovato, fino alla fine, anche se sempre, o quasi sempre, deluso. Queste cose le ha scritte, senza pietà, o più verisimilmente con grandissima pietà, per sé stesso e per gli altri».
Oggi Peppino non c’è più, eppure non è rimasto solo. I frutti del suo impegno purtroppo non li ha visti, non ne ha goduto, ma ci sono e sono evidenti: siamo noi, e siamo qui.

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