Da
Genova a Palermo, queste elezioni amministrative rinnovano una bella
fetta di classe dirigente, selezionano gli amministratori locali, gli
avamposti istituzionali, la prima linea di fronte alla crisi sociale. Ma
il voto del 6 e 7 maggio è anche un grande sondaggio sugli umori del
paese, una prova generale delle prossime elezioni politiche e i
risultati confermano le previsioni della vigilia: meno cittadini al
voto, più voti per le liste 5 Stelle, lo scioglimento di fatto del Pdl,
il crollo della Lega, la tenuta della sinistra dove ha costruito
candidature unitarie. Bisognerebbe tenerne conto e non è detto.
Non c’era bisogno che nove milioni di cittadini si recassero al seggio per capire quanto fosse profondo il distacco tra elettori e eletti. Oggi quel 66,9 per cento di votanti è un segnale catarifrangente di una distanza che diventa lontananza e poi rifiuto. Un avviso di pericolo per chi crede che una debole partecipazione al voto renda ancora più acuta la crisi della rappresentanza. Naturalmente se confrontiamo il nostro 66,9 per cento con il 30 delle ultime amministrative in Gran Bretagna possiamo esserne confortati. Ma, pur lontani dalle profondità della crisi economica greca (astensione al 40 per cento), siamo dentro la stessa corrente. Quando un sistema politico è incapace di autoriformarsi e allarga le sue crepe fino a sentir tremare la casa comune, è la democrazia che sbanda.
Il successo della protesta grillina offre ancora un contenitore ricco di speranza così come gli scandali leghisti indeboliscono la forza del Carroccio che salva la pelle grazie al voto personale per Tosi, ma l’exploit lepenista in Francia e l’ingresso nel parlamento di Atene dell’estrema destra indicano un possibile, drammatico sbocco della crisi economica anche in Italia. L’attentato al dirigente Ansaldo, a Genova, rievoca scenari funesti.
Per scongiurare, dopo il berlusconismo, il coagularsi di una nuova deriva populista come risposta al montismo, sarebbe necessaria una sinistra credibile, capace di coalizzare un fronte sociale e politico che le restituisca l’orgoglio di una proposta alternativa al Leviatano tecnocratico. Votare senza nemmeno discutere la riforma dell’articolo 81 della Costituzione (il pareggio di bilancio), non ci avvicina alla Francia di Hollande. Né subire le candidature dei sindaci premiati dagli elettori, oggi nel caso di Marco Doria a Genova e di Leoluca Orlando a Palermo, ieri a Milano con Pisapia e a Napoli con De Magistris. Il Pd guadagna poco dal disastro del centrodestra, e se un voto anticipato è considerato come un egoismo di partito giocato sulla pelle del paese, rischioso salto tra le macerie, lo slogan della crescita dovrebbe almeno spiegare se è quella di Monti o di Stiglitz.
Non c’era bisogno che nove milioni di cittadini si recassero al seggio per capire quanto fosse profondo il distacco tra elettori e eletti. Oggi quel 66,9 per cento di votanti è un segnale catarifrangente di una distanza che diventa lontananza e poi rifiuto. Un avviso di pericolo per chi crede che una debole partecipazione al voto renda ancora più acuta la crisi della rappresentanza. Naturalmente se confrontiamo il nostro 66,9 per cento con il 30 delle ultime amministrative in Gran Bretagna possiamo esserne confortati. Ma, pur lontani dalle profondità della crisi economica greca (astensione al 40 per cento), siamo dentro la stessa corrente. Quando un sistema politico è incapace di autoriformarsi e allarga le sue crepe fino a sentir tremare la casa comune, è la democrazia che sbanda.
Il successo della protesta grillina offre ancora un contenitore ricco di speranza così come gli scandali leghisti indeboliscono la forza del Carroccio che salva la pelle grazie al voto personale per Tosi, ma l’exploit lepenista in Francia e l’ingresso nel parlamento di Atene dell’estrema destra indicano un possibile, drammatico sbocco della crisi economica anche in Italia. L’attentato al dirigente Ansaldo, a Genova, rievoca scenari funesti.
Per scongiurare, dopo il berlusconismo, il coagularsi di una nuova deriva populista come risposta al montismo, sarebbe necessaria una sinistra credibile, capace di coalizzare un fronte sociale e politico che le restituisca l’orgoglio di una proposta alternativa al Leviatano tecnocratico. Votare senza nemmeno discutere la riforma dell’articolo 81 della Costituzione (il pareggio di bilancio), non ci avvicina alla Francia di Hollande. Né subire le candidature dei sindaci premiati dagli elettori, oggi nel caso di Marco Doria a Genova e di Leoluca Orlando a Palermo, ieri a Milano con Pisapia e a Napoli con De Magistris. Il Pd guadagna poco dal disastro del centrodestra, e se un voto anticipato è considerato come un egoismo di partito giocato sulla pelle del paese, rischioso salto tra le macerie, lo slogan della crescita dovrebbe almeno spiegare se è quella di Monti o di Stiglitz.
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