PERUGIA - Non sono affatto convinto che quello che
in Italia va oggi sotto il nome di antipolitica sottintenda, in tutto o
in parte (in parte almeno significativa) una domanda di “cambiamento”
(in senso “positivo”), che si serve degli strumenti culturali
“disponibili” sul mercato. L’antipolitica mi sembra semplicemente
l’altra faccia della cattiva politica, ad essa complementare e
funzionale. Del resto si può ben vedere come la critica feroce e il
rifiuto della politica e dei “politici” conviva, il più delle volte, con
un atteggiamento riverente e questuante nei loro confronti e, anzi,
tanto più accentuati sono i primi, tanto più lo diventa il secondo.
Da cosa nasce l’antipolitica? A mio giudizio, fondamentalmente,
dalla caduta della idea che possa esistere una alternativa al modello
economico e all’organizzazione sociale oggi dominante, che è quella del
liberismo e del capitalismo (da questo punto di vista il “crollo” del
comunismo ha avuto un effetto devastante). In queste condizioni è
evidente che il conflitto si sposta, come dire?, dall’”idea alla
persona”, cioè l’insoddisfazione, la critica, la protesta non si
rivolgono più verso il sistema, ritenuto intangibile o comunque il
migliore possibile, ma verso i suoi “gestori” e interpreti materiali,
cioè governanti e politici e, di conseguenza, verso gli aspetti più
appariscenti, detestabili e invidiati della loro condizione. Nel
contesto di un rapporto non più collettivo, ma “individuale”, la critica
alla politica e ai politici diventa una sorta di sfogatoio in cui
frustrazioni anche di carattere personale si aggiungono a problemi di
disagio sociale ed “economico”. Emblematica, da questo punto di vista,
la tragica catena di suicidi di imprenditori e di lavoratori, che sembra
solo oggi scoperta dall’apparato mediatico, ma che in realtà, come è
stato ricordato, accompagna tutte le fasi di acuta crisi sociale.
A delineare il quadro si aggiungono due altri importanti elementi:
il pessimo esempio e le pessime prove di se che offre la cosidetta
“classe politica” (coinvolta in toto, nel senso comune e forse anche
nella realtà, nelle pratiche di decadimento etico e di malcostume) e il
fatto che forze economiche, politiche e mediatiche potentissime hanno
lavorato e lavorano per minare la fiducia nella politica come strumento
del cambiamento e della risoluzione dei problemi individuali e
collettivi
Da questo punto di vista con il governo Monti siamo “dentro”, ed in
parte credo, “oltre” i fenomeni del “diciannovismo” e del “sovversivismo
delle classi dirigenti” analizzati da Antonio Gramsci. Negli anni ’20
del secolo scorso l’ondata di sfiducia nella politica e nelle
istituzioni fu funzionale a sbarrare la strada all’avanzata del
movimento operaio e l’avvento al potere del fascismo ne fu lo strumento
“operativo” finale; oggi, periodo nel quale il pericolo della
“rivoluzione” è accantonato, l’antipolitica viene usata per affermare la
dittatura dei mercati e il compito di polo di riferimento, destinato a
“riempire” il vuoto istituzionale conseguente, è affidato non più ad un
regime politico reazionario “classico”, ma alla “tecnica”, che assume,
in questo momento, le sembianze del governo Monti.
Io non credo che l’antipolitica e i suoi protagonisti vogliano in
realtà moralizzare e cambiare la politica e le istituzioni. Questo
naturalmente non vuol significare ignorare queste esigenze e non
comportarsi di conseguenza, con denunce quando è necessario, programmi e
atti politici conseguenti e, soprattutto, comportamenti ed esempi
positivi, che sono quanto mai necessari e urgenti a “sinistra”.
Mi parrebbe però sinceramente inutile accodarsi alla campagna denigratoria e alle già sovrabbondanti posizioni ed espressioni di critica e discredito della politica e delle istituzioni che, ad ogni piè sospinto in una sorta di moda esagerata e dissolvente, riempiono le pagine dei giornali e gli schermi delle tv. Così come mi pare del tutto superfluo proporsi e insistere sulla “apertura al dialogo” con forze, come quella del cosiddetto “grillismo”, che il dialogo non lo vogliono e annegano in una marea qualunquista proposte o programmi originariamente “di sinistra” e che andranno, semplicemente, giudicate sui fatti concreti, cioè sostenuti sulle scelte giuste, criticati su quelle sbagliate.
Mi parrebbe però sinceramente inutile accodarsi alla campagna denigratoria e alle già sovrabbondanti posizioni ed espressioni di critica e discredito della politica e delle istituzioni che, ad ogni piè sospinto in una sorta di moda esagerata e dissolvente, riempiono le pagine dei giornali e gli schermi delle tv. Così come mi pare del tutto superfluo proporsi e insistere sulla “apertura al dialogo” con forze, come quella del cosiddetto “grillismo”, che il dialogo non lo vogliono e annegano in una marea qualunquista proposte o programmi originariamente “di sinistra” e che andranno, semplicemente, giudicate sui fatti concreti, cioè sostenuti sulle scelte giuste, criticati su quelle sbagliate.
Il punto mi pare un altro: il consenso e la fiducia nella politica
si recuperano e si ottengono, come sempre, sul terreno, per così dire,
delle condizioni materiali. Oggi la sinistra registra e paga una pesante
caduta di credibilità che è, fondamentalmente, all’origine delle sue
difficoltà elettorali. Questa credibilità può essere recuperata non
certo compiacendo, in tutto o in parte, le suggestioni dell’antipolica.
La strada è un’altra: i comunisti e la sinistra devono resistere e
combattere, per così dire, su due fronti: uno “interno”, unendosi, in
prospettiva unificandosi, mettendo in discussione e rinnovando il
proprio modo di essere ed operare, ripristinando un “costume” esemplare,
aprendo le organizzazioni e rendendole democratiche e inclusive;
l’altro rivolto verso l’esterno, avanzando e praticando programmi e
proposte realistiche e credibili, che parlino ad un fronte largo e
complesso di forze e che mirino a suscitare e ad assumere, come
interlocutori primari, movimenti “strutturali”, cioè ancorati a solide
radici nella società e, in quanto tali, in grado di trasformarla .
E’ una strada lunga, complessa, forse incerta, ma che non ha alternative.
E’ una strada lunga, complessa, forse incerta, ma che non ha alternative.
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