Il “caso Grillo” è per molti versi l’ultimo esempio della grande
passione degli italiani per l’eloquenza e la guida carismatica. Questa
tradizione, lunga e consolidata, almeno da D’Anunnzio in poi, ci spiega
forse più di ogni cosa perché oggi la gran parte dei partiti politici
italiani (PDL, UDC, IdV, SEL, FLI, Lega) reca nei rispettivi simboli il
nome del proprio leader. Senza voler entrare nel merito delle rispettive
proposte politiche, né fare assurdi paralleli tra le diverse
personalità, è un fatto che in Italia ci sia una tendenza del tutto
peculiare ad affidarsi ciecamente a un capo politico, cui si
attribuiscono capacità illimitate, delegandolo ben oltre il mero
rapporto di rappresentanza. Del resto non è certo un caso se uno dei
temi più ricorrenti nell’opera di Gramsci sia proprio un particolare
tipo di relazione tra governanti e governati, in linea con un elemento
permanente del carattere italiano: la sua propensione a farsi sedurre
dalle doti oratorie del “tribuno intelligente”. Così si esprimeva in
proposito nei Quaderni, «l’ammirazione ingenua e fanatica per
l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, corrisponde
al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di
sciovinismo popolare in Italia. D’Annunzio si presentava come la sintesi
popolare di tali sentimenti: apoliticità fondamentale, nel senso che da
lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili dal più sinistro
al più destro». La guida carismatica è corrispondente a una fase ancora
primitiva nello sviluppo dei partiti, una fase nella quale la dottrina è
un qualcosa di nebuloso per le masse e queste necessitano di un «papa
infallibile», capace di interpretarla ed adattarla alle diverse
circostanze. Una fase dominata da «ideologie incoerenti e arruffate»
incentrate sul colpo di teatro, l’abilità oratoria e l’emotività delle
classi sociali cui fanno riferimento. Se però, per una ragione o l’altra
cade improvvisamente il grande leader, l’organizzazione è gettata nello
scompiglio e nella crisi più assoluta, vive una condizione anarchica da
“8 settembre”. La sola eccezione italiana a questa storia può essere
rintracciata nella vitalità molecolare dei grandi partiti di massa tra
la Resistenza e il primo dopoguerra, dove di certo non mancavano i
leader, ma la loro funzione era mediata da una serie di rapporti
organizzativi nei quali la verifica democratica e le forme di
partecipazione non erano meramente passive. Il rapporto senza filtri tra
leader e masse adoranti, che si può esprimere nelle adunate come nelle
forme assembleari, non porta maggiore partecipazione, determina semmai
l’emergere di una concezione sempre più mediatica dell’organizzazione
politica. Essa contribuiesce a edificare nuove oligarchie politiche
difficili da controllare e, in quanto tali, indiscutibili, non è la
liberazione di nuove energie democratiche. In questi anni ci si è
interrogati spesso sulla cosiddetta «crisi della politica», senza però
andare mai al fondo dei nodi che riguardano il funzionamento dei
partiti, la selezione dei loro gruppi dirigenti e istituzionali basata,
in generale, sulla cooptazione fiduciaria attorno a singole personalità.
I vecchi partiti del secondo dopoguerra, non gli immensi carrozzoni
clientelari degli anni Settanta e Ottanta, avevano pur tra tanti limiti
la capacità di realizzare una partecipazione costante alla vita
politica, favorendo una formazione di gruppi dirigenti non
esclusivamente composti di “specialisti”. La vita dei partiti si
articolava nelle strutture culturali, di associazione sportiva e
sociale, di agregazione ludica, favorendo una maggiore organicità tra
cittadini e politica. So di andare contro l’opinione prevalente, ma la
risposta alla crisi del rapporto di rappresentanza non penso possa
venire delle primarie, che confondono la personale capacità persuasiva
del candidato con la costruzione di una comunità politica, affidandosi
alle sue virtù taumaturgiche. Servirebbe semmai una reale autoriforma
dei partiti politici, per renderli nuovamente lo strumento principe
della partecipazione popolare, assegnando nuovamente ai congressi una
funzione alta di luogo collettivo per l’elaborazione, direzione e
selezione politica. Oggi assistiamo agli smottamenti inconsulti del
sistema politico italiano, in risposta a ciò tutti descrivono
spregiativamente Grillo come immondo “pifferaio magico”, ma mi chiedo,
la tendenza alla personalizzazione della politica italiana degli ultimi
venti anni, a destra come a sinistra, non ha oggettivamente preparato il
terreno a questo risultato? E’ una massima storica infallibile, quando
un movimento politico punta tutto sulle doti del suo “pifferaio magico”,
prima o poi il flauto si rompe o compare sulla scena un suonatore più
capace. Spesso le due cose vanno assieme.
da www.giannifresu.it
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