Riflessioni
sullo stato del processo di formazione del polo imperialista europeo e
sui risultati elettorali in Grecia. Si discute da “tifosi” ma si perdono
di vista gli effetti dell'egemonia capitalista sui paesi e i lavoratori
europei.
Sembrava fatta,
sembrava che l’anello debole della catena europea stesse per cedere
addirittura a sinistra, invece ancora una volta le profezie funeste per
l’Unione Europea non si sono avverate, anzi bisogna dire che la smentita
di questo tipo di profezia negli ultimi due anni si è ripetuta più e
più volte.
Frequentemente ci siamo
trovati di fronte alle notizie giornalistiche che ormai la Grecia era
fuori gioco e che con l’effetto domino sarebbe caduto anche l’euro, ci
hanno detto che le trattative con l’Europa sul debito erano sul punto di
rompersi ma poi alla fine la soluzione balzava fuori come un coniglio
dal cappello. I più attivi in questo senso sono stati i filoeuropeisti,
alla Amato o alla Scalfari, che ci hanno descritto fin nei minimi
particolari, terrorizzanti, il baratro verso il quale stavamo correndo.
Ma nemmeno questa volta
le profezie si sono avverate, addirittura il popolo greco ha sostenuto
la prospettiva di drastici peggioramenti della propria condizione
sociale. Saranno stati tutti dei casi questi salvataggi in extremis,
oppure c’è qualcosa che non si riesce o non si vuole vedere? Come Rete
dei Comunisti l’abbiamo sempre affermato con chiarezza - anche se con la
coscienza che le “previsioni” non sono mai garantite - che il processo
di costruzione della Unione Europea è più forte di quanto si faccia
“pubblicamente” vedere, in quanto le classi dominanti del continente su
questo risultato si giocano il proprio ruolo economico e strategico in
un mondo dove contano sempre di più le dimensioni dei poli in
competizione ed il livello di sviluppo delle “famose” forze produttive,
categoria ormai dimenticata dalla sinistra. Una cosa è certa che da
questo livello non si può arretrare pena la sconfitta degli interessi
europei a cominciare da quelli della Germania.
Però si continua a
discutere se l’euro tiene sulla base degli andamenti di borsa, delle
tendenze dello spread, delle dichiarazioni di questo o quell’esponente
governativo di questo o di quel paese. Insomma si cerca di capire le
prospettive misurando la febbre ogni ora, cosa che normalmente non ci
verrebbe mai in mente di fare sapendo benissimo che il decorso delle
malattie ha i suoi tempi da rispettare. Questa è una attività praticata
ampiamente dai nostri giornalisti di regime ma viene accettata anche dal
pensiero debole della sinistra avendo ormai “resettato” tutte quelle
categorie economiche e strutturali che hanno permesso una corretta
lettura della società capitalista e delle sue dinamiche.
Per capire invece cosa
potrà effettivamente accadere all’Unione Europea ed all’euro, va
individuata quella linea di forza che parte dall’inizio degli anni ’90
(in realtà già con l'Atto Unico del 1986) e che si protrae fino alle
vicende odierne. Quello che si evidenzia in questa lettura è che il
progetto europeo ha sì rallentato e scandito i tempi, ma non è mai
tornato indietro, ha proseguito con una determinazione autoritaria
appena nascosta dalla retorica “emancipatrice” di una Europa faro
mondiale della democrazia.
Certamente l’esito finale
non è garantito fino a quando non è stato definitivamente acquisito, e
su questo si fanno tutta una serie di analisi di tipo economico che
dimostrano la debolezza di un progetto che non è partito dalla politica
ma dalla economia. Siamo però sicuri di questo? Siamo certi che basti
analizzare i dati economici per capire tale debolezza? Non rischiamo di
essere, ancora una volta come una coazione a ripetere, economicisti? I
risultati greci ci aiutano a capire in quanto riteniamo che la vittoria
del fronte pro-europeo non sia dovuta ad errori tattici di questa o
quella forza politica della sinistra, ma al peso che l’egemonia della
borghesia europea ed all’ideologia che essa, nel senso più marxista del
termine, ha prodotto. Una ideologia che afferma non solo che il mercato
capitalistico è l’unico orizzonte politico possibile, ma anche che fuori
da questa Unione Europea non esistono alternative. Diciamo però che le
cose sono un po’ più complesse di come vengono descritte nella cronaca
politica.
Questo effetto è il
prodotto di una Unione Europea che da venti anni sta costruendo un polo
imperialista e competitivo con tutto quello che ne consegue rispetto
alle classi subalterne ed alla coscienza che queste hanno di se stesse.
Fino ad oggi non è stata ancora trovata una chiave di lettura migliore
di quella esposta su “L’imperialismo” di Lenin, dove la categoria di
aristocrazia operaia viene chiarita in termini economici ed ideologici.
In questi ultimi venti anni caratterizzati dalla crescita economica e
finanziaria, la riorganizzazione produttiva mondiale ha allargato questa
condizione nei paesi imperialisti creando la falsa idea che comunque le
cose non potevano che migliorare, magari anche facendo qualche guerra
per il petrolio evitandone così il suo apprezzamento. Ora che la
tendenza si è invertita e hanno ripreso forza i processi di
proletarizzazione ed impoverimento, non è possibile aspettarsi una
automatica presa di coscienza di classe e dunque pesa ancora la
prospettiva che ci propongono le classi dirigenti europee in assenza di
una ipotesi alternativa ma, soprattutto, di un’altra visione del mondo
che contrasti l’ideologia dominante. Più che “fine delle ideologie”
siamo davanti all'egemonia di una unica ideologia: quella dominante.
In questa tornata
elettorale europea che ha visto diversi paesi protagonisti ne abbiamo
avuto una verifica empirica. Se nella periferia, in Grecia come in
Irlanda, l’opposizione alle politiche europee è più forte, anche se non
tanto forte da bloccare quelle politiche, mano mano che si va verso il
centro del polo europeo cambiano i comportamenti politico-elettorali. In
Italia prende forza l’antipolitica di Grillo che ha un contenuto
sostanzialmente etico-morale e non certo di classe, mentre in Francia
(ed in modo diverso anche in Spagna) vince l’opposizione europeista di
Hollande il quale però si dice già pronto a fare la guerra alla Siria.
In realtà ci vengono
presentati due processi paralleli e complementari come se ce ne fosse
uno solo, ovvero vengono sovrapposti la crisi di sovrapproduzione di
capitale intesa come crisi di sistema del modo di produzione (che ha gli
Usa come punto di forza e contemporaneamente di debolezza), con i
processi economico-politico-istituzionali di costruzione della Unione
Europea, in cui la posta in gioco è il ruolo gerarchico che i diversi
gruppi dirigenti capitalisti devono conquistarsi anche al di là della
specifica caratterizzazione nazionale. Insomma la crisi che vediamo da
noi sta decidendo i caratteri degli Stati Uniti d’Europa che il “Sole 24
Ore” ogni giorno ci pubblicizza sulle sue pagine.
Se questa analisi è
giusta, non si può pensare di dare giudizi sulla sinistra greca a
prescindere da tale contesto oppure credere di poter parlare di un altro
paese dimenticandoci che i processi europei omogeneizzeranno sempre più
le condizioni in cui agiamo. Si tratta perciò di andare al merito delle
questioni, piuttosto che prendere posizione da “tifosi”, e di trarre i
giusti insegnamenti per i comunisti e per la sinistra nella situazione
italiana.
Nel merito dei risultati di Syriza e Kke
Il risultato di Syriza è
indubbiamente eccezionale oltre che fino a poco tempo fa impensabile con
il raggiungimento del 27% dei voti. Essi sono una inaspettata ed
eccezionale conferma dell’impostazione politica che la Rete dei
Comunisti si è data fin dalla nascita. Abbiamo infatti sempre sostenuto
che per i comunisti c’è la necessità di una visione articolata
dell’intervento nel conflitto di classe. Uno dei punti strategici rimane
quello del partito o dell’organizzazione politica che deve assumere un
carattere militante e di quadri. L'altro è quello della rappresentanza
politica, e conseguentemente di quella istituzionale, che ha una sua
specifica autonomia e che può essere costruita dentro un fronte
politico-sociale che sappia rappresentare le classi subalterne
sottoposte ai rigori della crisi.
Questa impostazione, alla
quale si aggiunge la dimensione del conflitto sindacale/sociale, non
nasce da una analisi a tavolino ma dalla costatazione avanzata già negli
anni ’90, secondo la quale stavamo dentro la costruzione di un nuovo
polo imperialista dove la condizione materiale e la concezione
ideologica dei settori di classe rendeva impossibile un’ idea di rottura
rivoluzionaria (ed a maggior ragione la rottura stessa) dell’assetto
sociale che si andava costruendo in Europa. Peraltro questa elaborazione
è andata avanti fin dagli anni ’90 in rapporto con i compagni greci del
KOE, organizzazione comunista che oggi fa parte dell’alleanza politica
di Syriza.
La conferma obiettiva che
viene per noi dalla Grecia non può impedirci di evidenziare una serie
di questioni negative e che peseranno sulle prospettive degli equilibri
politici di quel paese. La prima è che Syriza, nella sua posizione
ufficiale, non è contro questa Unione Europea e che intende rimanere
nell’eurozona, come è stato affermato dal suo leader Tsipras nella
lettera pubblicata dal Financial Times del 12 Giugno. In Italia
conosciamo bene queste “contorsioni” politiche a cui ci ha abituato il
vecchio gruppo dirigente del PRC, il quale ha detto di tutto ed ha fatto
l’esatto contrario e quando leggiamo queste cose siamo colpiti da un
attacco di orticaria.
L’altra questione che
suona strana, e questo riguarda soprattutto noi in Italia, è che il
risultato elettorale viene esaltato come sintesi suprema della politica.
E’ il caso di ricordare agli estimatori nostrani, quasi tutti
caratterizzati da una irresistibile attrazione verso il PD, che il
risultato elettorale avuto da Syriza è il prodotto di una situazione
generale estremamente fluida, mobile ed imprevedibile, determinata dalla
crisi e che si protrarrà nel tempo. Così come è stato possibile il
balzo in avanti dal 6% al 27%, non sono afatto inconcepibili
arretramenti che potrebbero bruciare anche esperienze positive.
Questo ci rimanda alla
questione centrale, secondo cui ogni risultato elettorale va valutato e
rapportato alla capacità di costruire organizzazione e presenza stabile
nella classe, cosa sulla quale Syriza non si è espressa in quanto
alleanza politica. E’ un punto centrale, perché se non reputiamo
possibile produrre una trasformazione sociale, il processo di
sedimentazione delle forze deve essere dichiarato e praticato, in quanto
il solo dato elettorale, quello che da noi eccita tanto gli animi, non
può garantire una prospettiva valida.
Il KKE esce
elettoralmente ridimensionato e politicamente sconfitto da questa
tornata elettorale, ma anche qui le “prese di posizione” non aiutano a
capire e soprattutto impediscono una riflessione su di noi. Il
settarismo ha certamente avuto un peso nel risultato elettorale del KKE
ma limitarsi a questo sarebbe un atteggiamento superficiale. Il vero
errore di valutazione del Partito Comunista di Grecia, nasce da una
concezione ed elaborazione teorica inadeguata. Viene infatti negata la
costituzione del polo europeo e ci si attesta su una posizione di tipo
nazionale in cui sarebbe possibile, oggi come nel ‘900, fare il
socialismo. Questa negazione dell'esistenza e dell'agire del polo
imperialista europeo, per altri versi, agisce nel dibattito anche in
Italia, dove all’Unione Europea viene assegnato invece un carattere
progressivo, ovviamente se cacciamo le destre dal governo dell’unione.
Quella che emerge è una difficoltà dei comunisti e della sinistra, anche
di quella più coerente, a concepire il processo reale che sta seguendo
l’Unione Europea che la pone come nostro antagonista diretto nel
conflitto di classe.
In conclusione la vicenda
greca ci dice che la partita che si sta giocando nel continente è molto
complessa e tende a unificare le condizioni materiali e politiche nei
singoli paesi. E’ proprio su questo che va rafforzata l’analisi ed il
confronto tra le forze antagoniste, sapendo che il settarismo certamente
indebolisce un ampio fronte di classe, ma che anche la poca chiarezza
strategica e la cosiddetta autonomia del politico sono elementi di crisi
per chi si pone l’obiettivo di una espressione politica di classe
realmente indipendente dalle classi dominanti nella Unione Europea.
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