Si può costruire anche da noi, come nello stato
ellenico, una forza politica di tipo federativo, incentrata sul rifiuto
dell'austerità e il progetto di un'Europa diversa? Abbiamo sollecitato
movimenti e sindacati, decisivi nella formulazione di un'offerta
politica a sinistra nel nostro paese, a intervenire su questo tema,
rispondendo alla domande che segue.
La vicenda greca e lo stesso esito delle elezioni che lì si sono svolte dimostrano che è possibile contrastare il mercatismo liberista, che non è vero che non esistano alternative alle devastanti ricette antisociali imposte come dogmi dal 'finanzcapitalismo' e che può affermarsi una sinistra capace di indicare una strada radicalmente diversa, affrancata dalle catene del pensiero dominante.
Syriza, forte della sua struttura federativa che ha saputo unire gran parte della sinistra ellenica e riscuotere un eccezionale consenso di massa, parla davvero a tutti i popoli europei, formula un'ipotesi di uscita dalla crisi che rovescia il paradigma monetarista per porre al centro delle politiche economiche e finanziarie il lavoro, lo stato sociale, il reddito, la tutela e i diritti dei più deboli, i beni comuni, proponendo che intorno a questi capisaldi si ricostruisca l'intero assetto economico e istituzionale dei poteri e la stessa architettura politica dell'Europa.
Ritenete che quel modello possa ispirare anche in Italia una sinistra, sociale e politica, ancora prigioniera di frammentazioni, divisioni, ambiguità che l'hanno sino ad ora relegata nella marginalità? E quali sono, a vostro avviso, i contenuti di un programma che possa sostenere un progetto di profonda trasformazione del Paese?
La vicenda greca e lo stesso esito delle elezioni che lì si sono svolte dimostrano che è possibile contrastare il mercatismo liberista, che non è vero che non esistano alternative alle devastanti ricette antisociali imposte come dogmi dal 'finanzcapitalismo' e che può affermarsi una sinistra capace di indicare una strada radicalmente diversa, affrancata dalle catene del pensiero dominante.
Syriza, forte della sua struttura federativa che ha saputo unire gran parte della sinistra ellenica e riscuotere un eccezionale consenso di massa, parla davvero a tutti i popoli europei, formula un'ipotesi di uscita dalla crisi che rovescia il paradigma monetarista per porre al centro delle politiche economiche e finanziarie il lavoro, lo stato sociale, il reddito, la tutela e i diritti dei più deboli, i beni comuni, proponendo che intorno a questi capisaldi si ricostruisca l'intero assetto economico e istituzionale dei poteri e la stessa architettura politica dell'Europa.
Ritenete che quel modello possa ispirare anche in Italia una sinistra, sociale e politica, ancora prigioniera di frammentazioni, divisioni, ambiguità che l'hanno sino ad ora relegata nella marginalità? E quali sono, a vostro avviso, i contenuti di un programma che possa sostenere un progetto di profonda trasformazione del Paese?
Giorgio Cremaschi, No Debito
Si festeggiano assieme la vittoria dell'Ìtalia nel calcio e quella del governo nel vertice di Bruxelles. Ma è sbagliato perché Monti vince contro di noi.
La conquista, infatti, di qualche intervento per abbassare lo spread avviene al prezzo dell'accettazione dei piu rigidi meccanismi del fiscal compact. Cioè ancora controriforme, tagli, tasse e privatizzazioni. Si dice che però questo avviene avendo respinto l'intervento diretto dei poteri europei e del fondo monetario, la famigerata troika che ha portato alla fame la grecia.
Sì è vero non siamo stati formalmente invasi, ma ci siamo autoinvasi accettando tutte le condizioni degli invasori. Come la polonia del 1981 ove il generale Jaruselsky prese il potere per evitare l'invasione sovietica. Quindi niente gioia calcistica applicata allo spread, la direzione di marcia continua ad essere quella che ci ha portato alla crisi attuale.
La questione di fondo in Ìtalia e in europa è la necessità della rottura con il pensiero e la politica unica che le comandano. Oggi questa politica ha portato il continente nella più grave crisi economica dal 1929. Del resto la politica economica è la stessa dei governi di allora, austerità, tagli alla spesa pubblica, distruzione dei diritti del lavoro. Il risultato di allora fu il nazismo in Germania.
Oggi non sappiamo dove finirà la crisi sul piano politico, ma sappiamo che non finirà. Il governo Monti è l'espressione diretta di questa politica. Tecnicamente è un governo reazionario, perché al centro del suo operare sta la controriforma sociale. Tutto il sistema dei diritti sociali deve essere completamente smantellato, la crisi deve essere affrontata facendo ricorso agli spiriti animali del mercato e alla competitività selvaggia delle persone. Come ha detto la ministra Fornero il lavoro non è un diritto, ma deve essere conquistato nella dura lotta per la sopravvivenza. Un paese diventato una società low cost potrà tornare ad attirare gli investimenti. Questo è quanto pensa più in grande il presidente della Bce Mario Draghi, che ha recentemente affermato che il sistema sociale europeo è destinato a morire. E lui sta tra coloro che si prodigano per accelerarne la fine.
Questa Europa non è riformabile e va verso la crisi estrema, assieme alle classi dirigenti di centro destra e centro sinistra unite nel condurre al disastro.
Il governo Monti esiste e agisce con il sostegno determinante del Pd. In Grecia per la prima volta è stata la moneta a vincere le elezioni, e ha formato un governo con forze politiche gemelle a quelle che governano in Italia. Sarà ancora presto per dirlo, ma la prima impressione è che il riformismo progressista del governo Hollande sia già in difficoltà di fronte al sistema di comando europeo.
Se vogliamo salvare la democrazia sociale del dopoguerra, anzi farla progredire, questa Europa della Bce, del fiscal compact, dei patti di stabilità va rovesciata, non c'è nulla da salvare in essa. Le ridicole discussioni su come aggiungere crescita al rigore, prive di qualsiasi senso compiuto, lo dimostrano. Oggi una sinistra anticapitalista in Europa si ricostruisce a partire dal no al rigore. Questa è la discriminante costituente dei nuovi schieramenti e non la ridicola distinzione tra un centro destra e un centro sinistra che sostengono la stessa politica.
Deve saltare il banco, deve essere rifiutata la schiavitù del debito e tutto il corollario di austerità per i poveri e speculazione per i ricchi. E non ci si può far ricattare dalla moneta, ultimo spauracchio agitato di fronte alla crescente rabbia sociale, dopo che i ricatti della signora Merkel si sono indeboliti. Questa Europa va distrutta e ricostruita su altre basi realmente democratiche, pubblico, eguaglianza, beni comuni, riconversione delle produzioni e dei consumi.
Questo è il solo progresso che il nostro piccolo continente può portare all'umanità.
Il riformismo ha fallito. L'Europa del rigore va rovesciata
Si festeggiano assieme la vittoria dell'Ìtalia nel calcio e quella del governo nel vertice di Bruxelles. Ma è sbagliato perché Monti vince contro di noi.
La conquista, infatti, di qualche intervento per abbassare lo spread avviene al prezzo dell'accettazione dei piu rigidi meccanismi del fiscal compact. Cioè ancora controriforme, tagli, tasse e privatizzazioni. Si dice che però questo avviene avendo respinto l'intervento diretto dei poteri europei e del fondo monetario, la famigerata troika che ha portato alla fame la grecia.
Sì è vero non siamo stati formalmente invasi, ma ci siamo autoinvasi accettando tutte le condizioni degli invasori. Come la polonia del 1981 ove il generale Jaruselsky prese il potere per evitare l'invasione sovietica. Quindi niente gioia calcistica applicata allo spread, la direzione di marcia continua ad essere quella che ci ha portato alla crisi attuale.
La questione di fondo in Ìtalia e in europa è la necessità della rottura con il pensiero e la politica unica che le comandano. Oggi questa politica ha portato il continente nella più grave crisi economica dal 1929. Del resto la politica economica è la stessa dei governi di allora, austerità, tagli alla spesa pubblica, distruzione dei diritti del lavoro. Il risultato di allora fu il nazismo in Germania.
Oggi non sappiamo dove finirà la crisi sul piano politico, ma sappiamo che non finirà. Il governo Monti è l'espressione diretta di questa politica. Tecnicamente è un governo reazionario, perché al centro del suo operare sta la controriforma sociale. Tutto il sistema dei diritti sociali deve essere completamente smantellato, la crisi deve essere affrontata facendo ricorso agli spiriti animali del mercato e alla competitività selvaggia delle persone. Come ha detto la ministra Fornero il lavoro non è un diritto, ma deve essere conquistato nella dura lotta per la sopravvivenza. Un paese diventato una società low cost potrà tornare ad attirare gli investimenti. Questo è quanto pensa più in grande il presidente della Bce Mario Draghi, che ha recentemente affermato che il sistema sociale europeo è destinato a morire. E lui sta tra coloro che si prodigano per accelerarne la fine.
Questa Europa non è riformabile e va verso la crisi estrema, assieme alle classi dirigenti di centro destra e centro sinistra unite nel condurre al disastro.
Il governo Monti esiste e agisce con il sostegno determinante del Pd. In Grecia per la prima volta è stata la moneta a vincere le elezioni, e ha formato un governo con forze politiche gemelle a quelle che governano in Italia. Sarà ancora presto per dirlo, ma la prima impressione è che il riformismo progressista del governo Hollande sia già in difficoltà di fronte al sistema di comando europeo.
Se vogliamo salvare la democrazia sociale del dopoguerra, anzi farla progredire, questa Europa della Bce, del fiscal compact, dei patti di stabilità va rovesciata, non c'è nulla da salvare in essa. Le ridicole discussioni su come aggiungere crescita al rigore, prive di qualsiasi senso compiuto, lo dimostrano. Oggi una sinistra anticapitalista in Europa si ricostruisce a partire dal no al rigore. Questa è la discriminante costituente dei nuovi schieramenti e non la ridicola distinzione tra un centro destra e un centro sinistra che sostengono la stessa politica.
Deve saltare il banco, deve essere rifiutata la schiavitù del debito e tutto il corollario di austerità per i poveri e speculazione per i ricchi. E non ci si può far ricattare dalla moneta, ultimo spauracchio agitato di fronte alla crescente rabbia sociale, dopo che i ricatti della signora Merkel si sono indeboliti. Questa Europa va distrutta e ricostruita su altre basi realmente democratiche, pubblico, eguaglianza, beni comuni, riconversione delle produzioni e dei consumi.
Questo è il solo progresso che il nostro piccolo continente può portare all'umanità.
Paolo Beni, ARCI
Non c'è dubbio che la vicenda greca offra indicazioni preziose alla sinistra italiana: sulla possibilità di costruire un'alternativa al paradigma liberista, ma anche sui rischi della frammentazione e sulla necessità di aggregare i diversi sociali attorno ad un progetto di cambiamento.
La crisi greca ci squaderna sotto gli occhi uno spaventoso arretramento dei diritti sociali, civili e politici conquistati in decenni di storia europea. La pretesa di liberare il mercato da ogni vincolo sociale sta cancellando l'universalismo dei diritti che le Costituzioni democratiche del dopoguerra avevano sancito come principio irrinunciabile. E' sempre più chiaro che la vera prospettiva europeista è fuori dal liberismo, in un progetto transnazionale di solidarietà e giustizia sociale, partecipazione e controllo democratico sull’economia e la finanza.
C'è un filo che lega, pur con evidenti diversità, i risultati delle recenti elezioni francesi e tedesche col successo di Syriza in Grecia: in Europa stanno maturando le condizioni per un cambio di rotta. Quando sono chiamati a esprimersi col voto i cittadini europei bocciano le scelte della destra conservatrice e neoliberista di fronte alla crisi; la sinistra raccoglie consensi quando si oppone alle ricette imposte dai tecnocrati del mercato, viene invece punita dagli elettori laddove è subalterna al ricatto dei poteri finanziari.
L'Europa del monetarismo ha fallito e i suoi governi, succubi di fronte all'impunità del mercato, scelgono di scaricare il costo di quel fallimento sui più deboli. Ma le politiche di austerità e rigore a senso unico si dimostrano impotenti ad arginare la crisi e far ripartire la crescita, spingono le economie europee nella recessione, producono il massacro dei diritti sociali e la messa in mora della democrazia. La situazione implode ed è evidente che serve un'alternativa, ma questa non esiste dentro le compatibilità imposte da quegli stessi poteri che della crisi sono i primi responsabili.
Serve una svolta profonda, che parta dalla presa d'atto del fallimento del liberismo e della necessità di rimettere in discussione le basi culturali di quel modello di sviluppo. E’ l'ora di cambiare strada, con scelte nette e rigorose nell’orizzonte di uno sviluppo mirato alla riconversione ecologica dell’economia, alla qualità e alla sostenibilità delle attività produttive, ai beni pubblici e sociali. Non è vero che il risanamento dei conti pubblici sia incompatibile con l’equità, la giustizia sociale, la partecipazione democratica. E’ questione di scelte: rimettere al centro del modello economico e sociale il lavoro, i beni comuni, il welfare pubblico, la sostenibilità ambientale, la cultura e l’istruzione, una vera democrazia al servizio delle persone e delle comunità.
Questa oggi è la vera sfida per la sinistra. Saremo in grado di affrontarla solo se sapremo produrre un grande sforzo culturale. Per alimentare un nuovo progetto serve un pensiero nuovo, che parta dalla critica degli errori compiuti in questi anni in cui l'illusione di mitigare il liberismo e contenerne gli effetti sul piano sociale ha prodotto la più grande sconfitta storica della sinistra. Nella società italiana c’è una domanda di cambiamento che non trova risposte adeguate e solo col rinnovamento della politica potrà avere uno sbocco positivo. In questa situazione c'è un grande spazio per la sinistra, se saprà rappresentare in modo credibile un'altra idea di economia, di società, di democrazia.
La prima condizione è che i partiti non facciano ancora una volta l'errore di confidare nella propria autosufficienza e prendano atto della crisi che li attraversa. Ciò che serve non sono le scorciatoie leaderistiche o le alchimie tattiche, ma ricostruire il rapporto con la società, coinvolgere i soggetti sociali, dare dignità alle diverse forme della rappresentanza. E’ dal basso che può crescere l’alternativa: dai territori e dalle comunità locali, dall’iniziativa civica diffusa che riconquista lo spazio pubblico e ridà senso a un'idea della politica che non è gestione dell'esistente ma processo collettivo di trasformazione.
Un programma per il futuro? Dall’abisso nel quale ci hanno portato il dominio del capitale e la compatibilità pressoché totale al sistema, grazie anche ad una sinistra tesa a smorzare le lotte ed a cogestire il modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, non si potrà uscire se non attraverso un mutamento radicale, un programma che non parli semplicemente di riforme, ma di conflitto e di rivoluzione. Non da ora la politica dei banchieri e delle multinazionali detta legge sulla vita di noi tutti, ma finora l’illusione sviluppistica e consumistica ci ha resi ottusi, elargendoci allegramente le briciole del banchetto assassino imbandito dal Nord del mondo ai danni di un Sud sempre più povero e depredato.
Che cosa mai potremo aspettarci da coloro che sono stati afoni, e alla fine anche conniventi, rispetto alle guerre contro i “popoli di troppo”? La Somalia, l’Iraq, la Yugoslavia, l’Afghanistan sono le tappe insanguinate (e non ultime) delle “guerre umanitarie” che hanno permesso all’imperialismo di consolidare il proprio dominio sul mondo e di ipotecare il futuro di liberazione dei popoli; ma hanno anche corrotto culturalmente e moralmente, oltre che impoverito economicamente, le classi subalterne degli stessi paesi vincitori.
Lo stesso dicasi per il tema lavoro. Un lavoro che inquina e uccide non è accettabile. Quando ci chiederemo finalmente che cosa, come, perché, per chi produrre? I guasti ai danni del Pianeta sono già quasi irreversibili, come lo sono i disastri economici e sociali nei confronti delle popolazioni sottoposte da secoli alle rapine coloniali e imperialistiche di cui costituiscono il triste corollario la desertificazione ambientale e l’emigrazione forzata.
Ora anche nell’Occidente “ricco” i nodi vengono al pettine: l’imperativo categorico del “produci consuma crepa”, con cui il capitalismo industriale e bancario aveva legato ai propri interessi i lavoratori devastando con catene dorate la coscienza di classe, si è ridotto a un semplice e brutale “crepa”, fatto di disoccupazione, precarietà, malattia, distruzione ambientale, incultura , privatizzazione dei servizi, debiti insolvibili, guerra tra poveri, solitudine e disperazione.
Esiste un rimedio possibile a tutto questo?
La Valle di Susa da quasi un trentennio in lotta contro il Tav, la militarizzazione del territorio, i grandi sporchi interessi del partito trasversale degli affari, sta sperimentando che, insieme, si può lottare, difendersi, inceppare gli appetiti di poteri forti che sembravano invincibili. Ha anche capito che non si deve delegare ad altri la difesa della vita e del futuro, né scendere a mediazioni e a compromessi, perché ci sono beni e diritti irrinunciabili ed inalienabili. L’Europa di Maastricht ci vorrebbe condannare a ruolo di corridoio di traffico per merci e capitali, delocalizzazione del lavoro e deportazione di lavoratori: contro tale modello dissennato e irresponsabile abbiamo trovato la solidarietà di persone e popolazioni che, come noi, da tante parti del mondo, si oppongono a questo sistema subdolo e violento. In questi giorni la Valle ha accolto la marcia dei sans papiers e migranti: li sentiamo fratelli e compagni di una lotta contro il nemico comune, il capitale che nega libertà di movimento alle persone, ma lo garantisce al mercato.
Dunque un’unità grande ed autentica sarebbe indispensabile, ma è sul piano delle lotte reali che si possono trovare compagni, chiarezza di obiettivi, forza, prospettive per il futuro, programmi non semplicemente elettorali. Il momento è difficile, il cammino accidentato, ma esistono la ragione e la forza per cambiare. D’altra parte, “… non abbiamo altro da perdere se non le nostre catene, ma abbiamo un mondo intero da guadagnare”.
C'è grande spazio per la sinistra se non sceglie scorciatoie leaderistiche
Non c'è dubbio che la vicenda greca offra indicazioni preziose alla sinistra italiana: sulla possibilità di costruire un'alternativa al paradigma liberista, ma anche sui rischi della frammentazione e sulla necessità di aggregare i diversi sociali attorno ad un progetto di cambiamento.
La crisi greca ci squaderna sotto gli occhi uno spaventoso arretramento dei diritti sociali, civili e politici conquistati in decenni di storia europea. La pretesa di liberare il mercato da ogni vincolo sociale sta cancellando l'universalismo dei diritti che le Costituzioni democratiche del dopoguerra avevano sancito come principio irrinunciabile. E' sempre più chiaro che la vera prospettiva europeista è fuori dal liberismo, in un progetto transnazionale di solidarietà e giustizia sociale, partecipazione e controllo democratico sull’economia e la finanza.
C'è un filo che lega, pur con evidenti diversità, i risultati delle recenti elezioni francesi e tedesche col successo di Syriza in Grecia: in Europa stanno maturando le condizioni per un cambio di rotta. Quando sono chiamati a esprimersi col voto i cittadini europei bocciano le scelte della destra conservatrice e neoliberista di fronte alla crisi; la sinistra raccoglie consensi quando si oppone alle ricette imposte dai tecnocrati del mercato, viene invece punita dagli elettori laddove è subalterna al ricatto dei poteri finanziari.
L'Europa del monetarismo ha fallito e i suoi governi, succubi di fronte all'impunità del mercato, scelgono di scaricare il costo di quel fallimento sui più deboli. Ma le politiche di austerità e rigore a senso unico si dimostrano impotenti ad arginare la crisi e far ripartire la crescita, spingono le economie europee nella recessione, producono il massacro dei diritti sociali e la messa in mora della democrazia. La situazione implode ed è evidente che serve un'alternativa, ma questa non esiste dentro le compatibilità imposte da quegli stessi poteri che della crisi sono i primi responsabili.
Serve una svolta profonda, che parta dalla presa d'atto del fallimento del liberismo e della necessità di rimettere in discussione le basi culturali di quel modello di sviluppo. E’ l'ora di cambiare strada, con scelte nette e rigorose nell’orizzonte di uno sviluppo mirato alla riconversione ecologica dell’economia, alla qualità e alla sostenibilità delle attività produttive, ai beni pubblici e sociali. Non è vero che il risanamento dei conti pubblici sia incompatibile con l’equità, la giustizia sociale, la partecipazione democratica. E’ questione di scelte: rimettere al centro del modello economico e sociale il lavoro, i beni comuni, il welfare pubblico, la sostenibilità ambientale, la cultura e l’istruzione, una vera democrazia al servizio delle persone e delle comunità.
Questa oggi è la vera sfida per la sinistra. Saremo in grado di affrontarla solo se sapremo produrre un grande sforzo culturale. Per alimentare un nuovo progetto serve un pensiero nuovo, che parta dalla critica degli errori compiuti in questi anni in cui l'illusione di mitigare il liberismo e contenerne gli effetti sul piano sociale ha prodotto la più grande sconfitta storica della sinistra. Nella società italiana c’è una domanda di cambiamento che non trova risposte adeguate e solo col rinnovamento della politica potrà avere uno sbocco positivo. In questa situazione c'è un grande spazio per la sinistra, se saprà rappresentare in modo credibile un'altra idea di economia, di società, di democrazia.
La prima condizione è che i partiti non facciano ancora una volta l'errore di confidare nella propria autosufficienza e prendano atto della crisi che li attraversa. Ciò che serve non sono le scorciatoie leaderistiche o le alchimie tattiche, ma ricostruire il rapporto con la società, coinvolgere i soggetti sociali, dare dignità alle diverse forme della rappresentanza. E’ dal basso che può crescere l’alternativa: dai territori e dalle comunità locali, dall’iniziativa civica diffusa che riconquista lo spazio pubblico e ridà senso a un'idea della politica che non è gestione dell'esistente ma processo collettivo di trasformazione.
Nicoletta Dosio, No TAV
Serve l'unità, ma senza cadere nel politicismo
Un programma per il futuro? Dall’abisso nel quale ci hanno portato il dominio del capitale e la compatibilità pressoché totale al sistema, grazie anche ad una sinistra tesa a smorzare le lotte ed a cogestire il modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, non si potrà uscire se non attraverso un mutamento radicale, un programma che non parli semplicemente di riforme, ma di conflitto e di rivoluzione. Non da ora la politica dei banchieri e delle multinazionali detta legge sulla vita di noi tutti, ma finora l’illusione sviluppistica e consumistica ci ha resi ottusi, elargendoci allegramente le briciole del banchetto assassino imbandito dal Nord del mondo ai danni di un Sud sempre più povero e depredato.
Che cosa mai potremo aspettarci da coloro che sono stati afoni, e alla fine anche conniventi, rispetto alle guerre contro i “popoli di troppo”? La Somalia, l’Iraq, la Yugoslavia, l’Afghanistan sono le tappe insanguinate (e non ultime) delle “guerre umanitarie” che hanno permesso all’imperialismo di consolidare il proprio dominio sul mondo e di ipotecare il futuro di liberazione dei popoli; ma hanno anche corrotto culturalmente e moralmente, oltre che impoverito economicamente, le classi subalterne degli stessi paesi vincitori.
Lo stesso dicasi per il tema lavoro. Un lavoro che inquina e uccide non è accettabile. Quando ci chiederemo finalmente che cosa, come, perché, per chi produrre? I guasti ai danni del Pianeta sono già quasi irreversibili, come lo sono i disastri economici e sociali nei confronti delle popolazioni sottoposte da secoli alle rapine coloniali e imperialistiche di cui costituiscono il triste corollario la desertificazione ambientale e l’emigrazione forzata.
Ora anche nell’Occidente “ricco” i nodi vengono al pettine: l’imperativo categorico del “produci consuma crepa”, con cui il capitalismo industriale e bancario aveva legato ai propri interessi i lavoratori devastando con catene dorate la coscienza di classe, si è ridotto a un semplice e brutale “crepa”, fatto di disoccupazione, precarietà, malattia, distruzione ambientale, incultura , privatizzazione dei servizi, debiti insolvibili, guerra tra poveri, solitudine e disperazione.
Esiste un rimedio possibile a tutto questo?
La Valle di Susa da quasi un trentennio in lotta contro il Tav, la militarizzazione del territorio, i grandi sporchi interessi del partito trasversale degli affari, sta sperimentando che, insieme, si può lottare, difendersi, inceppare gli appetiti di poteri forti che sembravano invincibili. Ha anche capito che non si deve delegare ad altri la difesa della vita e del futuro, né scendere a mediazioni e a compromessi, perché ci sono beni e diritti irrinunciabili ed inalienabili. L’Europa di Maastricht ci vorrebbe condannare a ruolo di corridoio di traffico per merci e capitali, delocalizzazione del lavoro e deportazione di lavoratori: contro tale modello dissennato e irresponsabile abbiamo trovato la solidarietà di persone e popolazioni che, come noi, da tante parti del mondo, si oppongono a questo sistema subdolo e violento. In questi giorni la Valle ha accolto la marcia dei sans papiers e migranti: li sentiamo fratelli e compagni di una lotta contro il nemico comune, il capitale che nega libertà di movimento alle persone, ma lo garantisce al mercato.
Dunque un’unità grande ed autentica sarebbe indispensabile, ma è sul piano delle lotte reali che si possono trovare compagni, chiarezza di obiettivi, forza, prospettive per il futuro, programmi non semplicemente elettorali. Il momento è difficile, il cammino accidentato, ma esistono la ragione e la forza per cambiare. D’altra parte, “… non abbiamo altro da perdere se non le nostre catene, ma abbiamo un mondo intero da guadagnare”.
Marco Bersani, Forum Italiano Movimenti per l'Acqua
La vicenda greca parla a tutti i popoli d’Europa sotto diversi punti di vista.
Da una parte è la più lampante dimostrazione di come lo “shock” del debito sia stato artatamente costruito per ridisegnare il comando sociale dei grandi capitali finanziari sul mondo del lavoro e sull’intera vita delle persone.
La Grecia è infatti il Paese che più pedissequamente si è sottoposto ai diktat della “Troika” e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: drastica caduta delle condizioni di vita, disoccupazione di massa, precarietà generalizzata, espropriazione di beni comuni e servizi pubblici, sottrazione di democrazia.
Dall’altra è l’altrettanto chiara dimostrazione di come la mobilitazione sociale costante e su contenuti chiari sia pagante e possa far uscire un intero popolo dalla frammentazione e dalla disperazione per iniziare a costruire un’alternativa : da questo punto di vista l’esperienza di Syriza è illuminante e densa di indicazioni.
Lo scontro sociale che la crisi ci consegna è - e sempre più sarà - senza quartiere: da una parte l’ossessione delle politiche liberiste chiede continuamente nuovi “assets” su cui riversare i capitali finanziari, dentro un modello capitalistico in condizioni di cronica sovrapproduzione; dall’altra, i movimenti sociali indicano nell’inversione di rotta e nella definanziarizzazione della società la possibilità di un altro modello sociale.
E’ come se, dopo aver per oltre due decenni affermato “privato è bello”, cercando di convincere le persone, oggi i poteri forti finanziari dicano molto più semplicemente - e ferocemente – “privato è obbligatorio e ineluttabile”.
Da questo punto di vista, il nuovo paradigma dei beni comuni che ha attraversato tutte le lotte e le mobilitazioni sociali, in particolare nel nostro Paese, diviene il luogo principale dello scontro in atto, tra la riappropriazione collettiva di ciò che a tutti appartiene e il definitivo esproprio di diritti e democrazia.
Su questo terreno - la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua dello scorso anno lo dimostra - è possibile costruire un altro linguaggio e un nuovo protagonismo sociale che sappiano uscire dalla pur generosa minorità per parlare all’intera società.
Un terreno che sposti l’asse dell’azione collettiva dall’intervento “a valle” dei processi all’assalto “a monte” degli stessi: che passi dal “consumo critico” alla critica della produzione, dalla lotta contro le privatizzazioni alla riappropriazione partecipativa di beni e servizi, dal terreno de “i soldi non ci sono” alla risocializzazione del credito, dalla democrazia formale alla democrazia reale.
Da questo punto di vista - e conoscendo tanto i drammatici limiti delle forze politiche in Italia quanto le insufficienze dei movimenti sociali - sarei molto cauto nell’immaginare una deterministica riproduzione italiana dell’esperienza di Syriza.
Innanzitutto perché quell’esperienza nasce dalla mobilitazione sociale reale che in quel paese ha assunto livelli di radicalità - più di 15 scioperi generali - attualmente impensabili in Italia; inoltre la crisi della rappresentanza nel nostro Paese - dopo due decenni in cui il modello Berlusconi ha plasmato trasversalmente la società - ha assunto livelli di drammaticità, difficilmente riscontrabili in altri Paesi europei.
L’Italia è un Paese tutt’altro che pacificato, ma l’insufficienza delle mobilitazioni sociali rispetto allo scontro in atto è purtroppo un dato ancora evidente; l’Italia è un Paese denso di rivendicazioni collettive, ma la frammentazione delle stesse è purtroppo sotto gli occhi di tutti.
Prima di affrontare il delicatissimo tema della rappresentanza, occorre a mio avviso dedicare tutte le possibili energie alla costruzione della precondizione della stessa: una forte, radicale, unitaria e inclusiva mobilitazione sociale su alcuni obiettivi chiari e comunicabili, che sappiano tessere la rete delle relazioni sociali e ribaltare l’agenda politica di un Palazzo ormai “autistico”.
Il rischio è che, in mancanza di un livello adeguato di mobilitazione sociale, la scorciatoia della rappresentanza venga ancora una volta dai più percorsa, nell’illusione di costruire dall’alto ciò che è complicato far emergere dal basso.
Ben venga Syryza, dunque, se serve a camminare. Ma con la consapevolezza dei passi da compiere.
Syriza in Italia? Proviamoci ma la strada è lunga
La vicenda greca parla a tutti i popoli d’Europa sotto diversi punti di vista.
Da una parte è la più lampante dimostrazione di come lo “shock” del debito sia stato artatamente costruito per ridisegnare il comando sociale dei grandi capitali finanziari sul mondo del lavoro e sull’intera vita delle persone.
La Grecia è infatti il Paese che più pedissequamente si è sottoposto ai diktat della “Troika” e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: drastica caduta delle condizioni di vita, disoccupazione di massa, precarietà generalizzata, espropriazione di beni comuni e servizi pubblici, sottrazione di democrazia.
Dall’altra è l’altrettanto chiara dimostrazione di come la mobilitazione sociale costante e su contenuti chiari sia pagante e possa far uscire un intero popolo dalla frammentazione e dalla disperazione per iniziare a costruire un’alternativa : da questo punto di vista l’esperienza di Syriza è illuminante e densa di indicazioni.
Lo scontro sociale che la crisi ci consegna è - e sempre più sarà - senza quartiere: da una parte l’ossessione delle politiche liberiste chiede continuamente nuovi “assets” su cui riversare i capitali finanziari, dentro un modello capitalistico in condizioni di cronica sovrapproduzione; dall’altra, i movimenti sociali indicano nell’inversione di rotta e nella definanziarizzazione della società la possibilità di un altro modello sociale.
E’ come se, dopo aver per oltre due decenni affermato “privato è bello”, cercando di convincere le persone, oggi i poteri forti finanziari dicano molto più semplicemente - e ferocemente – “privato è obbligatorio e ineluttabile”.
Da questo punto di vista, il nuovo paradigma dei beni comuni che ha attraversato tutte le lotte e le mobilitazioni sociali, in particolare nel nostro Paese, diviene il luogo principale dello scontro in atto, tra la riappropriazione collettiva di ciò che a tutti appartiene e il definitivo esproprio di diritti e democrazia.
Su questo terreno - la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua dello scorso anno lo dimostra - è possibile costruire un altro linguaggio e un nuovo protagonismo sociale che sappiano uscire dalla pur generosa minorità per parlare all’intera società.
Un terreno che sposti l’asse dell’azione collettiva dall’intervento “a valle” dei processi all’assalto “a monte” degli stessi: che passi dal “consumo critico” alla critica della produzione, dalla lotta contro le privatizzazioni alla riappropriazione partecipativa di beni e servizi, dal terreno de “i soldi non ci sono” alla risocializzazione del credito, dalla democrazia formale alla democrazia reale.
Da questo punto di vista - e conoscendo tanto i drammatici limiti delle forze politiche in Italia quanto le insufficienze dei movimenti sociali - sarei molto cauto nell’immaginare una deterministica riproduzione italiana dell’esperienza di Syriza.
Innanzitutto perché quell’esperienza nasce dalla mobilitazione sociale reale che in quel paese ha assunto livelli di radicalità - più di 15 scioperi generali - attualmente impensabili in Italia; inoltre la crisi della rappresentanza nel nostro Paese - dopo due decenni in cui il modello Berlusconi ha plasmato trasversalmente la società - ha assunto livelli di drammaticità, difficilmente riscontrabili in altri Paesi europei.
L’Italia è un Paese tutt’altro che pacificato, ma l’insufficienza delle mobilitazioni sociali rispetto allo scontro in atto è purtroppo un dato ancora evidente; l’Italia è un Paese denso di rivendicazioni collettive, ma la frammentazione delle stesse è purtroppo sotto gli occhi di tutti.
Prima di affrontare il delicatissimo tema della rappresentanza, occorre a mio avviso dedicare tutte le possibili energie alla costruzione della precondizione della stessa: una forte, radicale, unitaria e inclusiva mobilitazione sociale su alcuni obiettivi chiari e comunicabili, che sappiano tessere la rete delle relazioni sociali e ribaltare l’agenda politica di un Palazzo ormai “autistico”.
Il rischio è che, in mancanza di un livello adeguato di mobilitazione sociale, la scorciatoia della rappresentanza venga ancora una volta dai più percorsa, nell’illusione di costruire dall’alto ciò che è complicato far emergere dal basso.
Ben venga Syryza, dunque, se serve a camminare. Ma con la consapevolezza dei passi da compiere.
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