mercoledì 27 giugno 2012

Dopo Cristo di Dante Barontini, www.contropiano.org

Domani sarà il primo giorno del “d. C.”, per il mondo del lavoro italiano. Non badate a quanti minimizzano la portata di questa controriforma.
Per esempio Confindustria o i berlusconiani docg, che ne avrebbero voluta una ancora peggiore. E non era possibile, a meno di non tornare allo schiavismo, che però ha le sue controindicazioni (il corpo dello schiavo è “capitale” che il proprietario deve conservare in forze per poterlo casomai rivendere; il lavoratore dipendente si strizza e si getta via quando non serve più, deve badare a se stesso da solo).

Quella che la Camera sta approvando in via definitiva, consentendo a Mario Monti di presentarsi a Bruxelles con uno scalpo in mano, è l'inizio di un'era tragica. Ma non “nuova”. Due decenni di abuso di questo aggettivo ne hanno svuotato il significato, fino a ridurlo a “domani è un altro giorno” e quindi...
Non c'è nulla di “nuovo” nella cancellazione dell'articolo 18. Si torna alla situazione antecedente al 1966, con il dipendente licenziabile in qualsiasi momento adducendo un qualsiasi pretesto “economico” che non potrà subire alcuna verifica da parte di terzi; men che meno di un giudice.
Non c'è nulla di nuovo nella riduzione drastica degli ammortizzatori sociali a un solo anno di indennità di licenziamento, o a un solo anno di cassa integrazione ordinaria (quella per “eventi imprevedibili”, come incendi o alluvioni o terremoti).
Non c'è nulla di “nuovo” nella conferma aggravata della precarietà contrattuale.

Eppure questo ingranaggio complesso disegna un altro – non “nuovo” - campo di gioco nel conflitto sociale. Sindacalisti onesti, militanti di movimento, soggetti sociali sono chiamati a prendergli subito le misure. È un campo che relega in un angolo la “mediazione sociale” e i diritti consolidati. Che affida dunque la risoluzione di ogni vertenza ai puri rapporti di forza esprimibili immediatamente, con sullo sfondo la chiamata in causa delle forze dell'ordine (come già si vede in decine di occasioni: gli operai vengono manganellati tanto quanto gli “estremisti dei centri sociali”, e la stampa padronale li accomuna sempre più nel novero delle figure “illegittime”).
La fase che si apre richiede perciò determinazione e prudenza, assenza di paura e capacità di calcolo, fermezza sui princìpi e massima convergenza possibile sulle iniziative di mobilitazione. Tutte qualità che, diciamolo con franchezza, a sinistra scarseggiano da anni. I due decenni che ci separano dalla caduta del Muro hanno premiato i “simulatori” del conflitto, i rètori che andavano a trovare i subcomandanti in altri continenti per meglio sedersi su volgarissime poltrone in Italia. Questa genia di ceto politico di risulta è stata prima distrutta elettoralmente e poi dimenticata.
Ma anche chi si è opposto a questa deriva ha dovuto pagare un prezzo alto, vedendo restringersi fino al solipsismo gli spazi del confronto politico, della mobilitazione comune, gli orizzonti entro cui misurare la capacità di incidere sui rapporto tra le classi e sull'evoluzione politica del paese.

Uscire dal minoritarismo è decisivo. Uscirne con un punto di vista solido, altrettanto. Saper distinguere il piano della necessaria unità nella mobilitazione da quello, più difficile, della “ricostruzione scientifica” della realtà, diventa un compito da assolvere con acume e senza urla.
Il campo su cui da oggi ci muoviamo tutti è difficile, ma non sconosciuto. Somiglia tantissimo a quelli dei decenni più lontani, se non addirittura a quelli ottocenteschi.
Sarebbe bene che anche la serietà militante venisse “rinnovata” recuperando struttura. Ovvero spina dorsale e cervello collettivo. Emarginando per sempre l'individualismo legato alla necessità di “apparire” e la passione triste per la frammentazione.
Scriveva Paolo Volponi che la sinistra italiana è fratricida, anziché parricida. Composta dunque da figli che non diventano adulti e che mirano solo a dividersi l'eredità paterna, anziché mirare a far meglio dei padri “aumentando il patrimonio” (di conoscenza, organizzazione, cultura, ecc).
Invitiamo tutti – a partire da noi stessi – a lasciarsi alle spalle quella miseria. Su questo “campo di gioco” non c'è più spazio per chi palleggia da fermo, non corre e non passa mai la palla.

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