I fatti di Basiano segnano un confine e
gettano una luce nera sul conflitto sociale nell'epoca della crisi. Con
l'aggravante del razzismo palese nei comportamenti della polizia.
Basiano tra Giolitti e Monti
Giuseppe Aragno
Dopo il pestaggio di
Basiano, i nostri ceti dirigenti sono tornati d'un colpo quelli che il 7
luglio 1880 persino conservatori come Sidney Sonnino misero sotto
accusa: «Noi abbiamo (...) legalizzata con le nostre istituzioni e con
le nostre teorie l'oppressione di una classe sopra un'altra, abbiamo
coperto sotto il manto della legge un processo di sfruttamento dei
nostri simili».
È di nuovo così. A Basiano s'è vista all'opera una milizia di parte che, gettata la maschera, ha mostrato la sua autentica funzione: garantire l'interesse dei padroni. Venti arresti, gambe spezzate, un lavoratore steso in una pozza del suo sangue e uno in coma per qualche ora; è vero, il morto non c'è stato, ma verrà. A un certo punto ho contato otto "tutori dell'ordine" - questurini o squadristi? mi son chiesto - i quali, senza nome, cognome o numero di matricola, protetti dagli elmi e sicuri dell'impunità, massacravano un manifestante inerme caduto nel suo sangue. Finita la battaglia, non ho visto un cenno di disappunto dei colleghi, non ho sentito prese di distanza. Tutti d'accordo nel silenzio omertoso: le "alte sfere" che paghiamo profumatamente, le questure, i comandanti delle legioni territoriali dei carabinieri, i commissariati, i sindacati di polizia. Non ha parlato nessuno, nessuno ha voluto condannare. Non s'è trovato un giornalista del circuito che conta, capace di andare oltre l'accenno preoccupato alle "tensioni sociali", non s'è sentita la voce d'un sostituto procuratore che annunciasse un'inchiesta. Zitto se n'è stato il Parlamento, zitta, per suo conto, la politica a tutti i livelli, sicché chi sa ancora leggere, scrivere e far di conto non ha potuto fare a meno di ricordare Gaetano Salvemini e un celebre pamphlet, nato in un tempo in cui un intellettuale aveva cuore per scrivere di un «ministro della malavita».
È di nuovo così. A Basiano s'è vista all'opera una milizia di parte che, gettata la maschera, ha mostrato la sua autentica funzione: garantire l'interesse dei padroni. Venti arresti, gambe spezzate, un lavoratore steso in una pozza del suo sangue e uno in coma per qualche ora; è vero, il morto non c'è stato, ma verrà. A un certo punto ho contato otto "tutori dell'ordine" - questurini o squadristi? mi son chiesto - i quali, senza nome, cognome o numero di matricola, protetti dagli elmi e sicuri dell'impunità, massacravano un manifestante inerme caduto nel suo sangue. Finita la battaglia, non ho visto un cenno di disappunto dei colleghi, non ho sentito prese di distanza. Tutti d'accordo nel silenzio omertoso: le "alte sfere" che paghiamo profumatamente, le questure, i comandanti delle legioni territoriali dei carabinieri, i commissariati, i sindacati di polizia. Non ha parlato nessuno, nessuno ha voluto condannare. Non s'è trovato un giornalista del circuito che conta, capace di andare oltre l'accenno preoccupato alle "tensioni sociali", non s'è sentita la voce d'un sostituto procuratore che annunciasse un'inchiesta. Zitto se n'è stato il Parlamento, zitta, per suo conto, la politica a tutti i livelli, sicché chi sa ancora leggere, scrivere e far di conto non ha potuto fare a meno di ricordare Gaetano Salvemini e un celebre pamphlet, nato in un tempo in cui un intellettuale aveva cuore per scrivere di un «ministro della malavita».
Un re ce l'abbiamo -
l'hanno incoronato gli americani, ma i nostri zerbini travestiti da
pennivendoli si sono inchinati zelanti - al governo dei banchieri non
manca certo l'oro per la medaglia e nel Paese di Bava Beccaris,
D'Annunzio e Ronchi dei Legionari, un invasato che si senta "uomo del
destino" e spari a mitraglia, non è merce rara. Ormai pare evidente:
giorno dopo giorno, c'è chi porta indietro le lancette, l'orologio della
storia gira a ritroso una ad una le pagine più tristi della nostra
storia e il calendario, come impazzito, corre difilato verso un ripetuto
'98. Chi non usa la lente deformante del liberismo non fa fatica a
vederlo: ai magazzini del Gigante, a Basiano, italiani, egiziani e
pakistani, che tempo fa si guardavano tra loro in cagnesco, di fronte
all'ingiustizia, stretti nella morsa della fame, vanno riscoprendo la
solidarietà e la lotta, fanno fronte comune contro il padrone, mettono
su scioperi, picchetti e si prendono galera e manganellate, ma scoprono
di essere piccini solo perché stanno in ginocchio. Come predicavano i
primi socialisti, però, più alzano la testa, più difendono i propri
posti di lavoro e dicono a chiare lettere che non accetteranno
condizioni di vera e propria schiavitù e più si trovano contro la legge
dei padroni.
Non c'è da farsi illusioni: la lotta continuerà e si tenterà di stroncare ogni protesta. Quando si levano in piedi, i lavoratori fanno ancora paura e solo i ciechi fingono di non vedere che il capitale è a un bivio: o continua a decorare Bava Beccaris che si "fa onore" nella repressione - non è per questo che De Gennaro è sottosegretario? - e arma così la mano di un rinato Bresci, o si ferma in tempo ed evita una tragedia che già conosciamo.
Il governo dei professori bene o male sa d'economia, ma in storia dovrebbe andare a ripetizione. Un maestro elementare ben preparato gli spiegherebbe ciò che per un liberale vero è l'alfabeto: «La colpa più grave della borghesia comincerebbe oggi se non vedesse la necessità assoluta di combattere anch'essa per il miglioramento dei lavoratori». Con queste parole Giolitti, parlando dallo scranno che oggi occupa Monti, spiegava a chi sognava eversioni dall'alto cosa sia governare. «La libertà ha i suoi inconvenienti - egli sostenne - talora gravi, ma passeggeri. La libertà è una grande maestra». E in nome della libertà ammoniva: «Il governo non può e non deve, sotto alcuna forma, né diretta né indiretta, modificare artificialmente gli effetti delle leggi economiche che regolano i prezzi dei salari come di tutte le merci: non interviene quando il salario è troppo basso, non deve intervenire quando si chieda una misura di salario più alta».
Non c'è da farsi illusioni: la lotta continuerà e si tenterà di stroncare ogni protesta. Quando si levano in piedi, i lavoratori fanno ancora paura e solo i ciechi fingono di non vedere che il capitale è a un bivio: o continua a decorare Bava Beccaris che si "fa onore" nella repressione - non è per questo che De Gennaro è sottosegretario? - e arma così la mano di un rinato Bresci, o si ferma in tempo ed evita una tragedia che già conosciamo.
Il governo dei professori bene o male sa d'economia, ma in storia dovrebbe andare a ripetizione. Un maestro elementare ben preparato gli spiegherebbe ciò che per un liberale vero è l'alfabeto: «La colpa più grave della borghesia comincerebbe oggi se non vedesse la necessità assoluta di combattere anch'essa per il miglioramento dei lavoratori». Con queste parole Giolitti, parlando dallo scranno che oggi occupa Monti, spiegava a chi sognava eversioni dall'alto cosa sia governare. «La libertà ha i suoi inconvenienti - egli sostenne - talora gravi, ma passeggeri. La libertà è una grande maestra». E in nome della libertà ammoniva: «Il governo non può e non deve, sotto alcuna forma, né diretta né indiretta, modificare artificialmente gli effetti delle leggi economiche che regolano i prezzi dei salari come di tutte le merci: non interviene quando il salario è troppo basso, non deve intervenire quando si chieda una misura di salario più alta».
Era
l'alba del Novecento, si sa, ma è ancora vero: impedire con la forza ai
lavoratori di migliorare la loro condizione, quando lottano per una
causa giusta, non significherebbe solo fare dello Stato il
rappresentante di una sola classe sociale, come voleva Agnelli, quando
Giolitti minacciò di chiusura la Confindustria. Vorrebbe dire spingere
«le classi popolari a sentirsi nemiche naturali dell'attuale ordine di
cose». Lo diceva Giolitti che fu liberale e riformista: l'estremismo
diverrebbe padrone del campo. All'orizzonte, però, non si vedono
statisti. Governano Napolitano e Monti e il pericolo è perciò
terribilmente concreto: la repubblica rischia davvero un Novantotto.
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