E così, di fronte alla tecnica finanziaria che fagocita la sinistra
“responsabile”, a noi viene da chiederci: potrebbe succedere anche in
Italia? Troppi interessati sospiri di sollievo hanno offuscato l’esito
del voto greco. Suppongo ne abbia tirato uno inconfessabile pure Alexis
Tsipras, il leader della sinistra radicale Syriza che ha quasi
raddoppiato i suoi voti restando però all’opposizione, come le è più
congeniale. Meglio per Tsipras che governi una coalizione guidata dalla
destra che prima truccò i conti pubblici e poi ha assecondato le ricette
disastrose imposte dall’estero a una popolazione che in maggioranza
(contando gli astenuti) le rifiuta. Una polarizzazione che ha ridotto
all’irrilevanza il Pasok, cioè il partito del socialismo europeo.
Liquidando come velleitaria l’aspirazione a una riforma democratica
dell’architettura dell’Unione, fondata sulla salvaguardia dei diritti e
degli interessi dei ceti popolari.
Il dubbio si è affacciato ieri sulla prima pagina dell’Unità: “Gioire perché vince la destra?”. Ma forse è troppo tardi: i cittadini ateniesi che fanno la fila alle mense dei poveri e devono rinunciare all’acquisto di farmaci per i loro figli, non hanno ricevuto nei mesi scorsi nessuna visita di Hollande, Gabriel, Bersani, Pérez Rubalcaba. Sospinti da un eccesso di prudenza, i leader della sinistra europea hanno preferito la latitanza, evitando di porre la questione greca fra le priorità di una politica riformista unitaria. Quasi che la bancarotta di cui i greci sono vittime, ma, certo, anche corresponsabili, fosse una disgrazia periferica da ignorare in assenza di soluzioni realistiche; e dunque non rimanesse che trasmettere la più miope delle rassicurazioni: noi non corriamo il rischio di finire come loro. Vero è che Bersani ha dichiarato di vergognarsi per come l’Europa tratta la Grecia; ma quel sentimento non si è ancora tradotto in mobilitazione politica.
Non va dimenticato che prima di capitolare di fronte al diktat emergenziale del governo tecnico di Papademos, nel novembre 2011 il premier socialista George Papandreou aveva compiuto un estremo tentativo: la convocazione di un referendum che suffragasse attraverso il responso della sovranità popolare la scelta di restare nell’eurozona, disposti a pagarne il prezzo doloroso. Quella procedura democratica, che aveva buone chances di riscuotere il consenso della cittadinanza, fu bloccata nel volgere di poche ore dalla reazione indispettita dell’establishment finanziario e dei più autorevoli statisti europei. Confermando la più spiacevole delle impressioni: l’incompatibilità fra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia. I teorici dell’estrema sinistra (ma anche della destra populista) ebbero così modo di denunciare che, sia pure con il giogo del debito al posto degli eserciti, stiamo vivendo una nuova epoca coloniale. Cioè che abbiamo già subito la liquidazione anticipata dell’unione politica confederale dei popoli europei. Quel veto, imposto nella più totale latitanza della sinistra riformista europea, segnò l’inizio della fine del Pasok e spianò la strada al successo di Syriza: una coalizione di forze della sinistra radicale favorevole a infrangere le normative comunitarie; le cui componenti nei prossimi giorni si scioglieranno per dare vita a un inedito partito-movimento sotto l’abile guida di Alexis Tsipras.
In apparenza un tale scenario risulta difficilmente replicabile in Italia. Qui il disfacimento della destra berlusconiana e leghista sembra favorire una supremazia elettorale del Partito Democratico e, alla sua sinistra, Nichi Vendola non pare intenzionato per il momento a rompere l’unità del centrosinistra. Tale quadro però è reso assai sdrucciolevole dall’exploit del Movimento 5 Stelle e dalle tentazioni populiste no euro che allignano trasversali, alimentate dalla crisi. Se in Grecia è Antonis Samaràs di Nea Demokratia a prendere da destra le redini del governo con il Pasok e Sinistra Democratica in posizione subalterna, il probabile terremoto elettorale italiano potrebbe determinare risultati tali da costringere anche il nostro Paese a riproporre un altro governo di “unità internazionale” come scelta obbligata. “Auspicata” dall’alto. Come testimonia anche la riforma del mercato del lavoro che la sinistra parlamentare si accinge a votare controvoglia — quasi fosse impossibile promuovere un nuovo europeismo d’impronta sociale — i riformisti costretti a muoversi sotto dettatura tecnica non riescono da tempo a rompere uno schema che li penalizza. Ma la politica obbligata a derogare dalle proprie ambizioni, sacrificando i valori in cui crede e i legami sociali che la vivificano, finisce per soffocare. L’esempio del socialismo greco incapace di reagire alla sofferenza del suo popolo è lì a dimostrarcelo. Così, nel medio periodo, anche nel nostro Paese si riproporrebbero le spaccature interne della sinistra, a scapito delle forze riformiste.
I leader della sinistra tedesca, francese, spagnola e italiana che hanno disertato di fronte alla tragedia greca, incontrano ogni giorno nuovi ostacoli sulla via di una politica davvero europeista. Lo testimonia il recente congresso della Spd che ha deciso di procedere subito, d’intesa con la Merkel, alla ratifica del Fiscal Compact nel Parlamento di Berlino: un trattato che così com’è esclude possibilità di deroghe per i Paesi indebitati; né più né meno “stupido” come già lo furono i parametri di Maastricht violati tranquillamente dai più forti ma imposti ai deboli in nome di una convenienza spacciata per virtù. Del resto, per paura di perdere consensi, i socialdemocratici tedeschi confermano ancora oggi il loro rifiuto degli eurobond. Come in tempo di guerra, gli interessi patriottici l’hanno vinta sull’internazionalismo proletario.
Chi di fronte all’incognita di un’economia al collasso vuole alimentare di nuova linfa gli ideali dell’unità europea e della giustizia sociale, non può ignorare più a lungo l’agonia della Grecia. O la sinistra ricomincia da Atene capitale, o rischia di perdersi.
Il dubbio si è affacciato ieri sulla prima pagina dell’Unità: “Gioire perché vince la destra?”. Ma forse è troppo tardi: i cittadini ateniesi che fanno la fila alle mense dei poveri e devono rinunciare all’acquisto di farmaci per i loro figli, non hanno ricevuto nei mesi scorsi nessuna visita di Hollande, Gabriel, Bersani, Pérez Rubalcaba. Sospinti da un eccesso di prudenza, i leader della sinistra europea hanno preferito la latitanza, evitando di porre la questione greca fra le priorità di una politica riformista unitaria. Quasi che la bancarotta di cui i greci sono vittime, ma, certo, anche corresponsabili, fosse una disgrazia periferica da ignorare in assenza di soluzioni realistiche; e dunque non rimanesse che trasmettere la più miope delle rassicurazioni: noi non corriamo il rischio di finire come loro. Vero è che Bersani ha dichiarato di vergognarsi per come l’Europa tratta la Grecia; ma quel sentimento non si è ancora tradotto in mobilitazione politica.
Non va dimenticato che prima di capitolare di fronte al diktat emergenziale del governo tecnico di Papademos, nel novembre 2011 il premier socialista George Papandreou aveva compiuto un estremo tentativo: la convocazione di un referendum che suffragasse attraverso il responso della sovranità popolare la scelta di restare nell’eurozona, disposti a pagarne il prezzo doloroso. Quella procedura democratica, che aveva buone chances di riscuotere il consenso della cittadinanza, fu bloccata nel volgere di poche ore dalla reazione indispettita dell’establishment finanziario e dei più autorevoli statisti europei. Confermando la più spiacevole delle impressioni: l’incompatibilità fra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia. I teorici dell’estrema sinistra (ma anche della destra populista) ebbero così modo di denunciare che, sia pure con il giogo del debito al posto degli eserciti, stiamo vivendo una nuova epoca coloniale. Cioè che abbiamo già subito la liquidazione anticipata dell’unione politica confederale dei popoli europei. Quel veto, imposto nella più totale latitanza della sinistra riformista europea, segnò l’inizio della fine del Pasok e spianò la strada al successo di Syriza: una coalizione di forze della sinistra radicale favorevole a infrangere le normative comunitarie; le cui componenti nei prossimi giorni si scioglieranno per dare vita a un inedito partito-movimento sotto l’abile guida di Alexis Tsipras.
In apparenza un tale scenario risulta difficilmente replicabile in Italia. Qui il disfacimento della destra berlusconiana e leghista sembra favorire una supremazia elettorale del Partito Democratico e, alla sua sinistra, Nichi Vendola non pare intenzionato per il momento a rompere l’unità del centrosinistra. Tale quadro però è reso assai sdrucciolevole dall’exploit del Movimento 5 Stelle e dalle tentazioni populiste no euro che allignano trasversali, alimentate dalla crisi. Se in Grecia è Antonis Samaràs di Nea Demokratia a prendere da destra le redini del governo con il Pasok e Sinistra Democratica in posizione subalterna, il probabile terremoto elettorale italiano potrebbe determinare risultati tali da costringere anche il nostro Paese a riproporre un altro governo di “unità internazionale” come scelta obbligata. “Auspicata” dall’alto. Come testimonia anche la riforma del mercato del lavoro che la sinistra parlamentare si accinge a votare controvoglia — quasi fosse impossibile promuovere un nuovo europeismo d’impronta sociale — i riformisti costretti a muoversi sotto dettatura tecnica non riescono da tempo a rompere uno schema che li penalizza. Ma la politica obbligata a derogare dalle proprie ambizioni, sacrificando i valori in cui crede e i legami sociali che la vivificano, finisce per soffocare. L’esempio del socialismo greco incapace di reagire alla sofferenza del suo popolo è lì a dimostrarcelo. Così, nel medio periodo, anche nel nostro Paese si riproporrebbero le spaccature interne della sinistra, a scapito delle forze riformiste.
I leader della sinistra tedesca, francese, spagnola e italiana che hanno disertato di fronte alla tragedia greca, incontrano ogni giorno nuovi ostacoli sulla via di una politica davvero europeista. Lo testimonia il recente congresso della Spd che ha deciso di procedere subito, d’intesa con la Merkel, alla ratifica del Fiscal Compact nel Parlamento di Berlino: un trattato che così com’è esclude possibilità di deroghe per i Paesi indebitati; né più né meno “stupido” come già lo furono i parametri di Maastricht violati tranquillamente dai più forti ma imposti ai deboli in nome di una convenienza spacciata per virtù. Del resto, per paura di perdere consensi, i socialdemocratici tedeschi confermano ancora oggi il loro rifiuto degli eurobond. Come in tempo di guerra, gli interessi patriottici l’hanno vinta sull’internazionalismo proletario.
Chi di fronte all’incognita di un’economia al collasso vuole alimentare di nuova linfa gli ideali dell’unità europea e della giustizia sociale, non può ignorare più a lungo l’agonia della Grecia. O la sinistra ricomincia da Atene capitale, o rischia di perdersi.
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