di Claudio Grassi e Bruno Steri
Dai primi resoconti sul vertice europeo risulta che il nostro
Presidente del Consiglio abbia strappato qualche provvidenza
anti-spread, fermi restando – ça va sans dire – il mantenimento ed anzi
l’intensificazione di “comportamenti virtuosi” da parte dell’Italia.
Qual è dunque, dal punto di vista del conflitto tra opposti interessi di
classe, il punto saliente della partita che si sta giocando attorno al
capezzale dell’Europa? Vediamo. Da mesi è in corso un’offensiva
diplomatica nei confronti della riottosa Germania: la sabbia della
clessidra europea sta venendo meno e non c’è più molto tempo da perdere.
In una prospettiva generale, come già auspicato nel recente incontro
del G20 tenutosi a Los Cabos, all’unione monetaria si vorrebbe
affiancare un’unione bancaria, un’Unione finanziaria europea.
Comprensibilmente, non si ritiene possibile mantenere una situazione in
cui i capitali continuino a rifluire dagli istituti creditizi dei Paesi
più esposti a quelli tedeschi: occorre pervenire a un sistema unificato
di assicurazione dei depositi bancari, concordemente garantito dagli
Stati membri dell’Eurozona. Ciò, in particolare, servirebbe a convincere
i cosiddetti “mercati” circa l’intenzione di difendere e consolidare la
moneta unica.
Evidentemente, una tale impresa dovrebbe anche comportare la parallela costituzione di una struttura comunitaria di vigilanza sul sistema finanziario stesso. E qui, dal nostro punto di vista (dal punto di vista di una sinistra di classe) si profila un primo rilevante problema: ammesso che questa possa costituire una risoluzione delle contraddizioni intra-europee, che ad oggi differenziano gli interessi dei diversi capitali nazionali, essa di per sé non tutela le classi subalterne rispetto ad un’equa ripartizione sociale dei costi della crisi. In proposito, annotiamo che il capitale finanziario europeo nel suo complesso, come anche quello statunitense, non è affatto uscito indebolito dal disastro che ha provocato in questi quattro anni di crisi dell’economia planetaria. Anzi, è stato gratuitamente sostenuto dagli establishments politici, con immensi travasi di risorse finanziarie (a carico dei contribuenti). Inoltre le annunciate regolamentazioni del sistema bancario (divieto di agire sul mercato finanziario ombra, divieto o anche solo limiti precisi alla compra-vendita di prodotti derivati, divieto di vendite allo scoperto ecc) sono rimaste allo stato di chiacchiera (in Europa) o al massimo lettera scritta ma non applicata (negli Stati Uniti); e le dimensioni too big to fail dei colossi finanziari, troppo grandi per poter esser lasciati fallire, sono rimaste tali. Del resto, come è ben illustrato dalla composizione dei governi italiano e greco, la distinzione tra finanza e politica è assai problematica e, in un contesto di orientamenti liberisti egemoni, è assai difficile immaginare un sistema finanziario che ponga drastici limiti a se stesso.
Si potrebbe in ogni caso dire: ben venga comunque un passo in avanti nella formazione di un governo finanziario a livello continentale che sbarri la strada alle incursioni speculative sui titoli e riequilibri il differenziale tra gli interessi sui medesimi. Purtroppo la faccenda è irta di insidie più di quanto non possa apparire a un primo volonteroso sguardo. La proposta di un’unificazione finanziaria europea comporta infatti l’attivazione di un’intera gamma di misure. Si tratterebbe ad esempio di modificare lo statuto dell’Esm, il “Fondo salva-stati” (dotazione: 500 miliardi di euro), autorizzandolo a prestare soldi alle banche, a cominciare da quelle spagnole, e ad acquistare sul mercato secondario titoli degli Stati in difficoltà, così da placare la speculazione e restringere la forbice del famoso spread, il differenziale rispetto ai titoli di stato tedeschi. Si tratterebbe ancora di attuare l’“ipotesi Visco” di un’europeizzazione dei debiti pubblici degli Stati membri per la parte che eccede il 60% del debito stesso: in ogni Stato andrebbe costituito un contenitore finanziario, un fondo in cui far confluire risorse corrispondenti alla parte eccedente del proprio debito e un pezzo consistente delle entrate dell’erario per il pagamento dei relativi interessi annuali. Ciò rappresenterebbe un argine eretto dinanzi alla speculazione, che si confronterebbe con le garanzie assicurate non più dal singolo Stato ma dalla compagine europea come tale. Evidentemente, misure siffatte presupporrebbero un restringimento sostanziale delle sovranità nazionali: in Costituzione non andrebbe solo il pareggio di bilancio, con lo stravolgimento di principio che già esso comporta, ma l’abdicazione alla gestione dell’intero apparato di controllo sul sistema finanziario e sui bilanci statali, a favore di un controllo europeo. Siamo giunti, dunque, al punto saliente evocato all’inizio di queste considerazioni. L’economista Nicola Rossi ha recentemente affermato: ha ragione il presidente della Bundesbank, se si vuole che si allentino i cordoni della borsa europea bisogna cedere sovranità statuale; i soldi si danno, ma devono esservi controlli stringenti. E’ una dichiarazione impegnativa e in toto discutibile: si tratta di capire cosa pensino su questo le forze del socialismo europeo. Questo è un punto dirimente. Lo stesso Vincenzo Visco ha onestamente riconosciuto che la sua proposta, quella sopra citata, non è in contraddizione con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio: detto schematicamente, ciò significa che il processo di europeizzazione delle politiche economiche e fiscali non è in contrasto con le politiche del rigore e dell’austerità. La strada – magari un po’ “temperata” – è la stessa. L’attuale presidente francese François Hollande ha dichiarato in campagna elettorale di voler ridiscutere il “patto fiscale” europeo, considerando necessaria una sua “integrazione” con elementi che promuovano la crescita. Noi, in accordo su questo con quanto ha ad esempio sostenuto a più riprese Joseph Halevi su il manifesto, riteniamo che le due cose non siano compatibili: le politiche liberiste e di austerità alimentano la spirale deflattiva. O ci si adegua o si cambia radicalmente strada: tertium non datur. Non a caso, in questi giorni Mario Monti continua a ripetere che l’Italia ce la fa da sola, che non ha bisogno di “aiuti” da parte della troika (Bce, Fmi, Commissione europea): lui, che ha già fatto pagare pesantemente agli italiani la bolletta europea, sa bene (più di lui lo sa il popolo greco) cosa costano i cosiddetti “aiuti”. La domanda di fondo, infatti, resta sempre la stessa: chi paga? E quanto? Noi diciamo: paghi chi ha di più e non ha mai pagato. Ciò vale per l’Italia e vale per l’Europa.
Evidentemente, una tale impresa dovrebbe anche comportare la parallela costituzione di una struttura comunitaria di vigilanza sul sistema finanziario stesso. E qui, dal nostro punto di vista (dal punto di vista di una sinistra di classe) si profila un primo rilevante problema: ammesso che questa possa costituire una risoluzione delle contraddizioni intra-europee, che ad oggi differenziano gli interessi dei diversi capitali nazionali, essa di per sé non tutela le classi subalterne rispetto ad un’equa ripartizione sociale dei costi della crisi. In proposito, annotiamo che il capitale finanziario europeo nel suo complesso, come anche quello statunitense, non è affatto uscito indebolito dal disastro che ha provocato in questi quattro anni di crisi dell’economia planetaria. Anzi, è stato gratuitamente sostenuto dagli establishments politici, con immensi travasi di risorse finanziarie (a carico dei contribuenti). Inoltre le annunciate regolamentazioni del sistema bancario (divieto di agire sul mercato finanziario ombra, divieto o anche solo limiti precisi alla compra-vendita di prodotti derivati, divieto di vendite allo scoperto ecc) sono rimaste allo stato di chiacchiera (in Europa) o al massimo lettera scritta ma non applicata (negli Stati Uniti); e le dimensioni too big to fail dei colossi finanziari, troppo grandi per poter esser lasciati fallire, sono rimaste tali. Del resto, come è ben illustrato dalla composizione dei governi italiano e greco, la distinzione tra finanza e politica è assai problematica e, in un contesto di orientamenti liberisti egemoni, è assai difficile immaginare un sistema finanziario che ponga drastici limiti a se stesso.
Si potrebbe in ogni caso dire: ben venga comunque un passo in avanti nella formazione di un governo finanziario a livello continentale che sbarri la strada alle incursioni speculative sui titoli e riequilibri il differenziale tra gli interessi sui medesimi. Purtroppo la faccenda è irta di insidie più di quanto non possa apparire a un primo volonteroso sguardo. La proposta di un’unificazione finanziaria europea comporta infatti l’attivazione di un’intera gamma di misure. Si tratterebbe ad esempio di modificare lo statuto dell’Esm, il “Fondo salva-stati” (dotazione: 500 miliardi di euro), autorizzandolo a prestare soldi alle banche, a cominciare da quelle spagnole, e ad acquistare sul mercato secondario titoli degli Stati in difficoltà, così da placare la speculazione e restringere la forbice del famoso spread, il differenziale rispetto ai titoli di stato tedeschi. Si tratterebbe ancora di attuare l’“ipotesi Visco” di un’europeizzazione dei debiti pubblici degli Stati membri per la parte che eccede il 60% del debito stesso: in ogni Stato andrebbe costituito un contenitore finanziario, un fondo in cui far confluire risorse corrispondenti alla parte eccedente del proprio debito e un pezzo consistente delle entrate dell’erario per il pagamento dei relativi interessi annuali. Ciò rappresenterebbe un argine eretto dinanzi alla speculazione, che si confronterebbe con le garanzie assicurate non più dal singolo Stato ma dalla compagine europea come tale. Evidentemente, misure siffatte presupporrebbero un restringimento sostanziale delle sovranità nazionali: in Costituzione non andrebbe solo il pareggio di bilancio, con lo stravolgimento di principio che già esso comporta, ma l’abdicazione alla gestione dell’intero apparato di controllo sul sistema finanziario e sui bilanci statali, a favore di un controllo europeo. Siamo giunti, dunque, al punto saliente evocato all’inizio di queste considerazioni. L’economista Nicola Rossi ha recentemente affermato: ha ragione il presidente della Bundesbank, se si vuole che si allentino i cordoni della borsa europea bisogna cedere sovranità statuale; i soldi si danno, ma devono esservi controlli stringenti. E’ una dichiarazione impegnativa e in toto discutibile: si tratta di capire cosa pensino su questo le forze del socialismo europeo. Questo è un punto dirimente. Lo stesso Vincenzo Visco ha onestamente riconosciuto che la sua proposta, quella sopra citata, non è in contraddizione con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio: detto schematicamente, ciò significa che il processo di europeizzazione delle politiche economiche e fiscali non è in contrasto con le politiche del rigore e dell’austerità. La strada – magari un po’ “temperata” – è la stessa. L’attuale presidente francese François Hollande ha dichiarato in campagna elettorale di voler ridiscutere il “patto fiscale” europeo, considerando necessaria una sua “integrazione” con elementi che promuovano la crescita. Noi, in accordo su questo con quanto ha ad esempio sostenuto a più riprese Joseph Halevi su il manifesto, riteniamo che le due cose non siano compatibili: le politiche liberiste e di austerità alimentano la spirale deflattiva. O ci si adegua o si cambia radicalmente strada: tertium non datur. Non a caso, in questi giorni Mario Monti continua a ripetere che l’Italia ce la fa da sola, che non ha bisogno di “aiuti” da parte della troika (Bce, Fmi, Commissione europea): lui, che ha già fatto pagare pesantemente agli italiani la bolletta europea, sa bene (più di lui lo sa il popolo greco) cosa costano i cosiddetti “aiuti”. La domanda di fondo, infatti, resta sempre la stessa: chi paga? E quanto? Noi diciamo: paghi chi ha di più e non ha mai pagato. Ciò vale per l’Italia e vale per l’Europa.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua