Un anno fa, Milano, Napoli e Cagliari
eleggevano sindaci "eretici", nati e cresciuti a sinistra dell'asse
bipartitico Pd-Pdl, e, poche settimane dopo, 27 milioni di italiani, la
maggioranza assoluta dei cittadini elettori di questo paese, votavano sì
a quesiti referendari distanti anni luce dalle posizioni dei soggetti
politici presenti in Parlamento. L'opposizione sociale al governo
Berlusconi, partita dalle scuole e dalle università nell'autunno 2008
, superava i confini che le erano stato
imposti, e metteva in scacco, direttamente sul terreno della politica,
tutto il quadro di gestione bipartitica e bipartisan delle politiche
neoliberiste, dalle privatizzazioni all'amministrazione locale.
Un anno dopo, le amministrative danno un
altro scossone al sistema politico, ma è impossibile darne una lettura
altrettanto univoca: tra coalizioni politiche e sociali frammentate e
spurie e dinamiche locali impazzite, l'unico dato chiaro è il crollo di
Pdl e Lega (più del primo che della seconda, in realtà), che si riversa
in gran parte sull'astensione o sulla quasi-astensione grillina. Ma se
Berlusconi e il blocco di potere costruito intorno a lui sembrano avere
definitivamente perso, chi ha vinto?
Il Pd è primo partito solo perché cala
meno dei propri concorrenti, e questi ultimi, a differenza di un anno
fa, sono difficilmente caratterizzabili a sinistra, e vincono cavalcando
più una generica incazzatura contro il sistema politico che l'onda
lunga delle battaglie antiliberiste. Non solo Orlando non è De Magistris
e Pizzarotti non è Pisapia, ma soprattutto il dibattito sulla
corruzione e sul finanziamento ai partiti ha sostituito quello su
saperi, lavoro e beni comuni che aveva caratterizzato il 2010-2011.
La comprensibile e crescente sfiducia
nelle istituzioni e nei partiti non ha ancora travolto le classi
dirigenti, ma rischia di chiudere ogni spazio ad ogni opzione politica
in senso stretto che sia radicalmente alternativa all’attuale assetto
politico-istituzionale. Il ciclo berlusconiano e i primi mesi del
post-Berlusconi rischiano di aver privato di legittimità qualunque
distinzione su base ideale; la politica viene sostituita con
l'amministrazione dell'esistente, pronta ad essere affidata o ai tecnici
o, nell'accezione grillina del termine, ai cittadini, non schierati
politicamente, ma incensurati e volenterosi. Sono due facce della stessa
medaglia, risposte tra loro speculari, che chiudono ogni spazio alla
costruzione di una società diversa.
Se il panorama è questo, è davvero
incomprensibile la situazione di assoluta immobilità in cui si trova la
sinistra sociale e politica italiana. Abbiamo un governo che, nel
silenzio assoluto di gran parte degli attori sociali e politici e dei
media, ha già fatto passare una finanziaria lacrime e sangue, la riforma
delle pensioni e il pareggio di bilancio e sta per far passare nello
stesso identico modo la riforma del mercato del lavoro, eppure nessuno
sembra interessato a occuparsene. La ragione è sottintesa: questo
governo è a termine, Monti ha già chiarito che non si ricandiderà, e al
momento l'opzione del partito dei tecnici sembra non essere mai nata,
perciò perché affannarsi a fare opposizione al governo, con il rischio
di inimicarsi chi lo sostiene? Meglio stare fermi e aspettare che passi
la nottata, tanto la destra è allo sfascio e il centrosinistra non può
perdere.
Non ci stupisce il cinismo di questo
ragionamento, che passa con leggerezza sopra le vite dei tanti italiani
che subiscono gli effetti concreti delle manovre di Monti, a quello
siamo abituati. Ci stupisce la sua incredibile miopia.
Si tratta della stessa miopia che caratterizzò i mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008, quando Walter Veltroni e i suoi accoliti credettero che fosse possibile, picconando a destra la già precaria e impopolare architettura del governo Prodi, riconquistare un consenso e andare al governo. Ciò che Veltroni non vedeva allora e che oggi sembrano non vedere i vari Bersani, Di Pietro e Vendola, è che non si può vincere a sinistra su un terreno di destra. Che l’autonomia del politico è un mito, che non esiste un momento elettorale asettico e isolato dal contesto in cui si situa, che, soprattutto a sinistra, esiste un nesso inscindibile tra potere politico e rapporti di forza sociali.
Si tratta della stessa miopia che caratterizzò i mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008, quando Walter Veltroni e i suoi accoliti credettero che fosse possibile, picconando a destra la già precaria e impopolare architettura del governo Prodi, riconquistare un consenso e andare al governo. Ciò che Veltroni non vedeva allora e che oggi sembrano non vedere i vari Bersani, Di Pietro e Vendola, è che non si può vincere a sinistra su un terreno di destra. Che l’autonomia del politico è un mito, che non esiste un momento elettorale asettico e isolato dal contesto in cui si situa, che, soprattutto a sinistra, esiste un nesso inscindibile tra potere politico e rapporti di forza sociali.
E non si vede davvero come il dibattito
politico di questi mesi possa preparare uno sbocco elettorale in qualche
maniera progressista. Il governo Monti, assolutamente privo di
opposizione, in parlamento come nella società, sta mettendo in pratica
una politica apertamente conservatrice, e nei dirigenti della sinistra
si fa strada l’idea che, tutto sommato, non sia così male: il governo
tecnico si fa carico delle “riforme impopolari che l’Europa ci chiede”, e
così, tra un anno, un nuovo governo può andare da Angela Merkel,
mettere sul piatto i sacrifici fatti dal popolo italiano, e pretendere
in cambio margini di manovra un po’ più ampi.
Ma si tratta di puro wishful thinking,
privo di qualsiasi razionalità. Perché mai le élite economiche che in 6
mesi di governo Monti hanno già portato a casa gran parte di ciò che
Berlusconi aveva promesso loro 20 anni fa, cioè riforma delle pensioni,
parziale liberalizzazione dei licenziamenti, facilitazioni e incentivi
all’utilizzo di contratti precari, apertura alla privatizzazione dei
servizi pubblici locali, riduzione del pubblico impiego, ennesimo blocco
del turn over all’università ecc., dovrebbero poi accontentarsi, e non
trovare un nuovo campione a cui affidare le sorti del paese, a meno che
chiaramente il presunto “centrosinistra” non sia disposto ad adottare
l’agenda Monti? E perché mai Bce, Fmi e governo tedesco dovrebbero
concedere a Bersani ciò che non hanno voluto concedere a Berlusconi e
che oggi, vedi vertice europeo della settimana scorsa, non concedono
neanche al fidato Monti? Ma, soprattutto: perché mai i cittadini
italiani dovrebbero votare per chi promette di fare domani il contrario
di ciò che vota in parlamento oggi, che è a sua volta il contrario di
ciò che prometteva ieri? Quale sarebbe la proposta politica di un
eventuale centrosinistra agli italiani? Sarebbe il portato delle
mobilitazioni anti-austerity degli ultimi 4 anni, con la difesa
dell’università pubblica, l’acqua come bene comune, la battaglia contro
la precarietà e contro il modello Marchionne, oppure sarebbe l’agenda di
Monti?
Due mesi fa facemmo una domanda, a chi
proponeva la foto di Vasto come base per una proposta di governo basata
sulla lotta alla precarietà: “se il governo non fosse disposto a
modificare la riforma in parlamento (ad ora non ci sono stati segnali
pubblici in questo senso) e se il Pd, come del resto ha più volte
ribadito Bersani, scegliesse di votarla a prescindere, cosa
succederebbe? Possiamo ipotizzare una coalizione politica basata sulla
lotta alla precarietà con al centro un partito che vota la sostanziale
liberalizzazione dei licenziamenti?”
Ciò che temevamo è successo, il Pd si è
allineato sul ddl Fornero, eppure a sinistra non è successo
assolutamente niente, ad eccezione della meritoria ma palesemente
insufficiente manifestazione della Federazione della Sinistra il 12
maggio: Sel e Idv continuano a invocare un centrosinistra al momento
invisibile quanto improbabile, mentre la sinistra sociale, sia sul piano
sindacale sia su quello di movimento, sta subendo la riforma del lavoro
con una passività davvero sconcertante.
Eppure il dibattito verso le elezioni
del 2013 pare assolutamente scollegato dalla realtà economica e sociale
quotidiana, viaggia su binari fantasmagorici, tra Bersani che annuncia
le primarie senza aver individuato la coalizione e tutta una serie di
soggetti presuntamente alla sua sinistra che si scannano su
un’improbabile lista “civica” in grado di tenere insieme i movimenti e
Carlo De Benedetti. Può la domanda di partecipazione e la disillusione
nei confronti dei partiti vedere solo una risposta tattica ed
elettorale? Basta una “lista civica” per mascherare una risposta
gerarchica e propagandistica alla richiesta di costruire dal basso una
nuova sinistra?
A queste domande, non solo nostre, le forze della sinistra politica fanno orecchie da mercante. Troppo rischiosa sarebbe per quei gruppi dirigenti l'ipotesi di lasciare le sicurezze del “Nuovo Ulivo” per avventurarsi sul terreno tanto difficoltoso quanto necessario della costruzione della sinistra. Ci si nasconde dietro l'idea che Monti rappresenti una fase transitoria, non cogliendo la differenza con ciò che realmente è, cioè una fase di transizione. Cambiano poche lettere, che fanno tutta la differenza del mondo.
A queste domande, non solo nostre, le forze della sinistra politica fanno orecchie da mercante. Troppo rischiosa sarebbe per quei gruppi dirigenti l'ipotesi di lasciare le sicurezze del “Nuovo Ulivo” per avventurarsi sul terreno tanto difficoltoso quanto necessario della costruzione della sinistra. Ci si nasconde dietro l'idea che Monti rappresenti una fase transitoria, non cogliendo la differenza con ciò che realmente è, cioè una fase di transizione. Cambiano poche lettere, che fanno tutta la differenza del mondo.
La transizione verso la terza repubblica
sarà lunga e difficile, e non potrà prescindere né dall’operato del
governo Monti né dal quadro di poteri nazionali e internazionali in cui è
nato. Credere che bastino le primarie per ricostruire il legame tra
opposizione sociale e alternativa politica che il governo Monti ha rotto
significa credere alla propria stessa propaganda. Non c’è alternativa e
non c’è sinistra, oggi, che possa prescindere dall’opposizione a questo
governo e al sistema di potere finanziario transnazionale di cui è
emanazione. Non c’è cambiamento possibile, oggi, senza l’investimento
forte su un conflitto democratico e costituente, in grado di mettere in
discussione i dogmi della compatibilità e di mettere in primo piano i
bisogni e le aspirazioni della società.
La sfida della crisi, per l’Italia, è
tutt’altro che finita: è appena iniziata, e il peggio deve ancora
venire. Per resistere, e vincerla, servono determinazione e senso di
responsabilità, ma soprattutto serve il coraggio di mettere in
discussione le rendite di posizione e le tentazioni dei sondaggi, di
mettere al centro la battaglia contro l’austerity e per un’alternativa
di società, di costruire intorno a essa un fronte di resistenza e
alternativa in grado di ricostruire il rapporto tra società e politica.
Difficile? Certo, ma qual è l’alternativa?
Eludendo questi punti, aggirando l’operato del governo Monti e sfuggendo alla domanda di radicale rinnovamento che viene dai cittadini, non c’è vittoria possibile, checché ne dicano i sondaggi. E fingere di non vedere i rapporti di forza in campo nella società, invece di provare a cambiarli, non è segno di maturità e volontà egemonica, ma solo di miopia e opportunismo.
Eludendo questi punti, aggirando l’operato del governo Monti e sfuggendo alla domanda di radicale rinnovamento che viene dai cittadini, non c’è vittoria possibile, checché ne dicano i sondaggi. E fingere di non vedere i rapporti di forza in campo nella società, invece di provare a cambiarli, non è segno di maturità e volontà egemonica, ma solo di miopia e opportunismo.
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