Intervista a Ivan Ergić
Ivan Ergić è un calciatore, un editorialista,
un marxista. Ha giocato a calcio per squadre come la Juventus, il
Basilea e il Bursaspor. Negli articoli per il giornale “Politika”
contempla la società da un punto di vista particolare e critica
apertamente l’industria dello sport.
Più in generale, Ivan è un “insider” che ci presenta lo sport in un modo inusuale.
Le circostanze hanno fatto sì che io scriva già da parecchio tempo
questi articoli sullo sport. Dico "le circostanze" perchè questa non
sarebbe la mia prima tematica di interesse. A parte il tifo per le mie
squadre del cuore nella pallacanestro e nel calcio, si potrebbe dire che
sulle questioni sportive io dispongo d’un medio grado d’informazione.
Sarebbe anche questa la causa per la quale i miei scritti parlano dello
sport in quanto tale soltanto in misura minore. Sono più interessato
allo sport come fenomeno sociale, alla maniera in cui la società si
riflette nello sport, alla funzione dello sport nella riproduzione
socio-economica. Mi interessano particolarmente queste tematiche dopo
aver letto alcuni anni fa un pezzo di Ivan Ergić nel quotidiano
“Politika”.
Ergić è nato a Sebenico. Durante la guerra nell'area ex jugoslava si
trasferì a Šabac, dopodiché visse per tre anni a Pert, in Australia.
Durante la sua carriera ha giocato il calcio per club come la Juventus e
il Basilea. Scrive articoli nei quali ha un’atteggiamento critico verso
l’industria dello sport. E' stato fra i primi a parlare della
depressione cui sono soggetti gli sportivi professionisti d’oggi a causa
del loro genere di vita.
Spesso trovo stereotipi che rappresentano Ivan come “il calciatore
che pensa”. L'idea, molto in voga oggi, secondo cui i calciatori
sarebbero soggetti non pensanti è causa di molte frustrazioni. Quando si
tratta di Ivan Ergić sarebbe opportuno dire che lui è un calciatore che
la pensa diversamente. E' molto cordiale ed è molto gradevole parlare
con lui. Quando l’ho conosciuto di persona ho avuto l'impressione di
conoscere un mio insider. Gli ho chiesto molte cose e a modo mio gli ho
fatto una lunga intervista, che adesso abbiamo pubblicato, come potete
vedere.
E' raro che gli sportivi s’interessino alle teorie sociali. Quello
che nel tuo caso è ancora più interessante è che ti interessi al
marxismo. Quando ti sei imbattuto nel marxismo per la prima volta?
Sono cresciuto in una famiglia partigiana. Il mio bisnonno era stato
fucilato dai fascisti italiani, perchè era un partigiano che faceva
delle azioni. Porto il nome Ivan a causa di Ivan Ribar [1], visto che
sono nato nel centenario della sua nascita. Era dunque naturale ch’io
crescessi nello spirito del socialismo e del sentimento positivo per la
Jugoslavia, una idea che oggi, dalle nostre parti, i revisionisti della
storia stanno sistematicamente distruggendo.
Da piccolo mi rimasero scolpite in mente le parole di mio babbo, che
diceva che Marx era stato il più grande dei profeti, perchè aveva
predetto che i soldi avrebbero distrutto l’umanità. Anche se non lo
capivo allora, questo suo dire non era in alcun modo un dogmatismo
imparato nelle riunioni del partito, ma un’opinione sagace e
ragionevole. La mia esperienza di vita mi dice che si tratta di una
grande verità. Ma vorrei sottolineare, visto che il marxismo ha diversi
spessori, che mi riconosco più spesso nel "giovane Marx", con la sua
teoria dell’alienazione, con la sua axiologia [2] umanistica; e negli
ultimi tempi, leggendo Il Capitale, devo dire che mi trovo d’accordo con
la maggior parte delle sue diagnosi. Meno d’accordo mi trovo con lo
storicismo volgare, con il rapporto di struttura e sovrastruttura e la
loro trasformazione nell’ideologia politica, anche se in tutto questo ci
sono alcuni elementi di verità.
Nell’ultima partita della squadra nazionale in cui si cantava “Hej
Sloveni” [3] tu eri l’unico giocatore a cantare quell’inno. Che cosa
significa la Jugoslavia per te?
Per me la Jugoslavia è un ideale incompiuto. Essa era fraternità e
unità, multiculturalità, multiconfessionalità, il senso
dell’uguaglianza, e non soltanto dal punto di vista delle classi
sociali, ma anche fra le nazioni e le etnie. Questo per l’Europa di oggi
non è altro che una chimera, che non si realizzerà mai proprio a causa
delle disuguaglianze, che si vedono meglio nei tempi di crisi (ad
esempio il rapporto tra Grecia e Germania).
Naturalmente, non sono un utopista e conosco tutte le insufficienze
ed errori di quel sistema, economici come pure politici. E nello stesso
tempo non riduco la Jugoslavia, come fa la maggior parte degli
jugonostgici, al mare, ai viaggi e al senso di sicurezza, tutte cose che
potrebbero essere lo specchio di uno stato clientelare. Come uno che
proviene da una famiglia operaia, che nella generazione precedente era
stata una famiglia dei contadini, so benissimo che non esiste nessun
sistema al mondo dove l’operaio e l’uomo comune siano stati più
rispettati. Basti pensare alla tragedia dei minatori di Aleksinac: ai
loro funerali il paese intero partecipò con una commozione profonda.
Oggi una cosa del genere è impensabile.
Del resto, anche sul piano simbolico eravamo all’apice della lotta
antimperialista, rappresentavamo il paese-guida per i popoli
decolonizzati dell’Asia e dell’Africa e per le popolazioni arabe. Le
nostre vie portavano i nomi di Patrice Lulumba, di Togliatti, di Che
Guevara, di Lola Ribar. E oggi nelle nostre capitali vediamo i monumenti
eretti ai monarchici e agli autocrati, come ad esempio il monumento ad
Alijev nel centro di Belgrado. Si tratta oggi di uno
pseudo-internazionalismo, un cosmopolitismo sostenuto dalle correnti
culturali liberiste, dietro alle quali si nasconde il capitale con
ambizioni imperialiste.
Il capitale sta anche dietro al calcio. Ed è interessante che ai
tempi della crisi, quando soltanto il calcio europeo professionale
contrae un debito annuale di 1,5 miliardi di Euro, gli investimenti in
questo sport non vengono a mancare. Si tratta di un mercato enorme e
degli interessi delle grandi corporazioni. In tutto questo, dov'è quello
che era il punto di partenza – il gioco?
Chiunque ami il calcio ed abbia sviluppato un gusto calcistico si può
accorgere che il calcio già da un pezzo non è più quello che era stato
una volta. La mercificazione di tutto, si guardi anche soltanto
nell’area della cultura, sta rovinando l’autenticità di ogni cosa. Il
gioco in quanto tale è spostato su di un binario secondario, mentre
predomina già da parecchio tempo la forza fisica, la resistenza, la
tattica. Anziché al gioco, molta più attenzione è rivolta all’economia
di un club calcistico, ai trasferimenti dei giocatori, alle
speculazioni, al guadagno, agli scandali dei calciatori nella vita
privata, alle baruffe, agli episodi di vandalismo delle gang giovanili,
eccetera. Il calcio quindi fa parte dell’industria del divertimento.
Del resto, la valanga di soldi e il sollevamento di tutte le barriere
ha condotto all’usanza che la selezione dei calciatori è fatta dal
padrone della squadra, pieno di capricci, e non da un allenatore, che
avrebbe il compito di comporre la squadra con razionalità e giudizio.
Perciò il Barcellona è oggi una spina nell’occhio per l’industria del
calcio. Quelli hanno dimostrato che senza molti soldi, con calciatori
usciti dalla loro scuola e con una certa filosofia calcistica, si può
fare la migliore squadra mai esistita – il Barca gioca vincendo e gioca
un bel calcio, un calcio migliore di chiunque altro. Per questo lo
disprezzano, visto che questo club sta diventando un simbolo, come lo
sono stati gli anarchici di Catalogna, che furono per tutti una spina
nell’occhio in quanto ipotesi alternativa in senso simbolico.
E come vedi in generale il ruolo dello sport nella società contemporanea?
Lo sport è l’ideologia allo stato puro e dicendo questo penso allo
sport professionale di qualsiasi specie. Lo sport è quella pedagogia
sociale che induce alla competizione, alla determinazione, alla
vittoria, alla sconfitta, al sacrificio, alla perseveranza, alla lotta,
quindi a tutto ciò che rappresenta il mercato, che è la più grande
ideologia mai esistita. Lo sport è l’agitprop del mercato.
I bambini fin da piccoli vengono condizionati perché si sentano
contenti quando vincono e umiliati quando perdono, e non soltanto nel
senso della gara, ma anche in senso umano. Uno sguardo
non-fenomenologico rivolto allo sport ci dice che esso avrebbe la
funzione di incanalare le frustrazioni. Questa tesi di Freud non è
diventata obsoleta per niente, come vorrebbe suggerire qualcheduno. Per
me oggi è una cosa terribile che un club sportivo ha più membri e può
mobilitare molta più gente dei sindacati.
Un grande ruolo in campo sportivo hanno i tifosi.
I tifosi purtroppo sono mutati in consumatori, il che è una
conseguenza naturale della mercificazione. Quando soggiornavo a Basilea
ho fatto amicizia con i tifosi e con gruppi di tifosi, andavo nelle
tournée. A dire il vero, facevo un tentativo di avvicinare i tifosi, i
giocatori ed il club, per quanto potevo fare nella mia posizione.
C’è una grande alienazione in questo campo: i tifosi generalmente
guardano ai calciatori come a star viziate, mentre i calciatori pensano
ai tifosi come a un male necessario - gran parte hanno un atteggiamento
negativo e chiedono sacrifici ai giocatori. E' vero: noi giocatori siamo
di passaggio, ma il club resta, però il club non è un’astrazione, il
club è composto di gente reale, con valori reali con i quali i tifosi si
identificano oppure no. Dunque, non deve esistere un rapporto di tifosi
verso il club, ma un rapporto di uomini verso altri uomini, e questo
non è un’utopia.
Parli di ideologia. Il calciatore da piccolo viene allenato, come gli
altri sportivi, a funzionare secondo un dato schema. Non sarebbe questo
il primo grado di un’ interpretazione ideologica?
Ogni industria cosciente di se produce un certo tipo d’uomo al quale
trasferisce certi valori. La stessa vita dei calciatori ha una
dimensione pedagogica, che ho menzionato. Così come è estetizzata la
vita privata dei divi di Hollywood, le stesse regole valgono per un
giocatore di calcio professionista. A lui sono permessi i capricci e le
scenate. Tutti devono cercare di essere come lui. In un mio articolo ho
scritto che il “sogno americano” oggi è stato sostituito dal “sogno
sportivo”, un sogno che è molto più largo e più ampio. Naturalmente, si
tralascia il fatto che soltanto una millesima parte dei giovanissimi può
realizzarlo, mentre tutti gli altri sono condannati a rimanere nella
miseria e nella povertà.
E' molto difficile resistere oggi agli schemi ideologici e pedagogici
dello sport, che influiscono molto di più sui ragazzi che vanno a
scuola, anche se la scuola pure punta ai parametri di efficacia e non
all’autosufficienza dello studio e della creatività. Ma la stragrande
parte dei giocatori di calcio è stata formata dall’ambiente in cui sono
cresciuti, in condizioni di vita certe volte impietose che portano alla
perdita della sensibilità. Lo sportivo ha il corpo modificato secondo le
leggi sportive, il che è evidente, visto che succede con ogni tipo di
attività che viene praticata dall’uomo: il posto di lavoro ed i suoi
imperativi plasmano la sua fisionomia.
In tutta questa formazione ha un grande ruolo l’autorità
dell’allenatore, che spesso è indiscussa. Come vedi tu la relazione fra
il calciatore e l’allenatore e come commenti gli eventi legati ad Adem
Ljaljić, che da una parte si trova contrapposto all’autorità degli
allenatori e dall’altra parte non è nelle loro grazie?
Come in ogni posto di lavoro, l’autorità non si discute. Ma il fatto è
che nella struttura gerarchica anche l’allenatore è sottomesso a
qualcun altro. Cosi funziona il sistema.
L'episodio di Adem Ljaljić nella Fiorentina esemplifica in modo
eccellente il caso d’un allenatore che è stato formato secondo le leggi
della vanagloria, nonché la vanagloria d’un giocatore, di cui i
mass-media e l’ambiente hanno già in giovanissima età fatto un piccolo
dio. E' una cosa che ho visto ovunque io abbia giocato.
Lo stesso episodio dell'inno nazionale mostra un atteggiamento
dell’allenatore molto maldestro verso una cosa che già da principio si
presta bene alla politicizzazione. L’inno in se è abbastanza escludente,
non parla della Serbia, ma dei Serbi e di dio. Queste parole in se e
per se escludono le minoranze e gli atei, i quali, sono sicuro, tutti
amano la Serbia forse più del resto dei cittadini serbi. Lo stesso
Ljaljić giocando per la squadra nazionale dal suo decimo anno d’età, ha
mostrato un patriottismo assai grande. Simili tendenze e
politicizzazioni del genere le vedo dappertutto nel nostro ambiente.
E' noto che non hai un manager, che controlli da solo tutta la tua
carriera: fatto che nel campo dal quale provieni rappresenta una vera
rarità. Come ti sei deciso ad un passo simile? Questo atteggiamento ti
ha complicato la vita o ti ha offerto delle possibilità migliori?
Non avere un manager di certo chiude molte porte, soprattutto se durante la carriera vai dicendo ad alta voce che la maggior parte di loro non sono altro che pescecani e parassiti. Se per questo sono stato punito e non ho potuto entrare in un club migliore, non lo so e non ha una grande importanza. Ho fatto tutto da solo e ho mantenuto un atteggiamento corretto verso i club che erano interessati a me come giocatore, ma non verso quelli che volevano entrare in giochi sporchi di spartizione dietro le quinte con agenti e manager. Purtroppo il sistema è stato costruito in modo che tutte le strade che portano verso i club devi percorrerle con i mediatori. Visto che conosco gente del cinema e della musica, posso affermare liberamente che così funziona l’industria del divertimento. Se si fa commercio con gente giovane ed i loro genitori disperati e inesperti, questo rappresenta un’ulteriore combinazione vincente per le agenzie.
Non avere un manager di certo chiude molte porte, soprattutto se durante la carriera vai dicendo ad alta voce che la maggior parte di loro non sono altro che pescecani e parassiti. Se per questo sono stato punito e non ho potuto entrare in un club migliore, non lo so e non ha una grande importanza. Ho fatto tutto da solo e ho mantenuto un atteggiamento corretto verso i club che erano interessati a me come giocatore, ma non verso quelli che volevano entrare in giochi sporchi di spartizione dietro le quinte con agenti e manager. Purtroppo il sistema è stato costruito in modo che tutte le strade che portano verso i club devi percorrerle con i mediatori. Visto che conosco gente del cinema e della musica, posso affermare liberamente che così funziona l’industria del divertimento. Se si fa commercio con gente giovane ed i loro genitori disperati e inesperti, questo rappresenta un’ulteriore combinazione vincente per le agenzie.
E' chiaro che esistono moltissimi problemi e che sarebbe necessario
un collegamento tra i diversi livelli. Che prospettiva c’è per
un’organizzazione sindacale dei calciatori?
A livello globale esiste un sindacato che si chiama FIFAPro. Esso ha
una sua agenzia in ogni Lega nazionale. Ma come ogni burocrazia, anche
questo sindacato è alienato rispetto ai giocatori e gli stessi giocatori
non hanno una coscienza precisa dei propri diritti. Il calciatore non
può scegliere il periodo in cui giocare, ne' sul quale terreno giocare,
non ha influenza sul calendario, cioè su quando e quanto a lungo possa
stare in vacanza, e durante le vacanze generalmente ha l'obbligo di
allenarsi. Tutto ciò porta all’esaurimento nervoso.
Però nel pubblico si è creata l’impressione che ogni esigenza
ulteriore del calciatore è percepita come arroganza di qualcuno che
guadagna tanto. Ma ai calciatori danno tanti soldi proprio affinché i
miliardari e i milionari nelle cui mani è concentrata l'industria
calcistica, queste divinità che hanno trasformato i tifosi in
consumatori, siano esentati da ogni critica e da ogni responsabilità.
Nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali in Francia
una delle obiezioni fatte alla sinistra, che vorrebbe tassare
drasticamente i ricchi, è stata che una politica fiscale simile avrebbe
danneggato molto il calcio francese, visto che i calciatori, alla
ricerca d’un guadagno migliore, sarebbero fuggiti dai club francesi.
Quanto conosci degli eventi sulla scena politica mondiale e quanto è
collegato il calcio, se lo è, alla politica?
Sto seguendo tutto ciò che capita nel mondo, soprattutto nella
sinistra. Ma penso che globalmente le politiche economiche integrate dei
governi, anche quelli di sinistra, si riducono a questioni di tecnica
finanziaria. Sono assolutamente per la ripartizione e per l’autonomia
delle istituzioni finanziarie, ma le economie devono ristrutturarsi in
modo da produrre abbastanza per potersi mantenere, e non per finanziare
le spese sociali e i servizi sociali con il debito, che poi dovranno
pagare le generazioni future. Nel momento in cui sia lo Stato che la sua
economia diventano più finanziarizzati, essi dovrebbero seguire
politiche keynesiane per incitare la crescita, senza i tagli e le
politiche di austerità richieste dai “tre grandi”.
Trovo molto positivo che la Francia, da grande potenza, vuole mettere
in discussione le politiche economiche dell’UE, ma il cambiamento
dovrebbe prodursi su di un livello più largo. Se soltanto un paese o due
praticano una diversa allocazione delle tasse, questo porterebbe
unicamente a indurre alla fuga i capitali. A livello globale il capitale
sempre trova delle oasi. Questo non significa che bisogna rigettare una
simile politica, ma che bisogna insistere sul suo allargamento in modo
che siano indotti a politiche simili i paesi più sviluppati, cioè che
essi siano costretti a fare ciò che finora non hanno fatto, per quanto
riguarda le cause che ci hanno portato alla crisi.
Accennare alle conseguenze sul calcio può sembrare banale, ma proprio
questo dimostra quanta importanza sociale ha acquisito il calcio e come
è strumentalizzato dalla politica, la quale si serve anche del calcio
per incutere timore.
Sport - ideologija u svom čistom obliku (Traduzione a cura di CNJ-onlus)
[1] Ivan Lola Ribar, grande personalità del movimento partigiano jugoslavo.
[2] Sistema di valori.
[3] Inno nazionale jugoslavo.
[2] Sistema di valori.
[3] Inno nazionale jugoslavo.
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