Per
brevità, vorrei commentare tre frasi, che mi sembra racchiudano il
senso della nostra situazione. La prima l’ha detta ieri Ferrero nel
corso della sua relazione «Noi – ha detto – dobbiamo avanzare un
programma di governo». Io sono del tutto d’accordo. Dico anche che
dovrebbe essere in un certo senso superfluo affermarlo, per una forza
politica. Essere una forza politica significa avere degli obiettivi
programmatici, e avere degli obiettivi programmatici implica avere di
mira l’obiettivo del governo, per il semplice fatto che non si può
coerentemente volere il fine senza volere anche il mezzo
Perché credo che sia stato comunque
importante che Ferrero abbia espresso con chiarezza questo concetto?
Perché ho spesso l’impressione che tra noi un malinteso realismo si
traduca in una sciagurata pulsione o vocazione minoritaria – o, più
verosimilmente, la sottenda
Noi sappiamo bene che oggi il nostro
programma (quello al quale sta lavorando Bruno Steri; ma anche gli
obiettivi esposti ieri da Maurizio Landini: all’assemblea della Fiom,
ieri, Ferrero – se ho inteso bene – ha esordito dichiarando di
considerare quegli obiettivi «un ottimo programma di governo») –
sappiamo bene che oggi il nostro programma non sarebbe interamente
condiviso da tutte le forze della sinistra e in particolare non sarebbe
recepito (se non in minima parte) dal Pd.
Ma credo che sia sbagliato –
politicamente e culturalmente, sul piano della cultura politica –
cominciare questo discorso escludendo interlocutori: cominciarlo
dichiarando: «mai più col Pd!».
A parte il fatto che questa è una
posizione un po’ ridicola, visto che mi pare che in questa fase noi
siamo oggetto di esclusione, piuttosto che soggetto (la subiamo,
piuttosto che deciderla – non fosse che per ragioni di dimensioni),
credo, in linea di principio, che sia buona regola, in politica,
produrre contraddizioni in campo altrui, non risolverle in partenza
I nostri obiettivi programmatici vanno
proposti a tutto il campo delle forze democratiche e della sinistra;
vanno impiegati come elementi di confronto e di interlocuzione con tutta
questa area di forze, e come fattori di ricomposizione di uno
schieramento il più vasto possibile
Se poi una forza politica non ne vuole
sapere (e di questo non credo proprio che dovremmo gioire), sarà compito
suo dichiararlo con le parole e i comportamenti, e sarà affar suo
giustificare questa scelta, tanto più grave, quanto più quegli obiettivi
saranno stati da noi ben concepiti, e saranno in grado di aggregare e
mobilitare vaste basi di massa.
Questo mi sembra implicito nella seconda
frase che vorrei ricordare, detta ieri dal segretario generale della
Fiom. Landini ha detto di considerare l’unità sindacale un dovere per i
gruppi dirigenti, in quanto essa è un diritto del mondo del lavoro.
Io credo che questo argomento valga tale
e quale per i partiti: noi abbiamo il dovere di ricercare il massimo di
unità possibile tra le forze democratiche e della sinistra, perché
questa unità è in primo luogo un diritto della nostra gente, che non
manca di ricordarci di non accontentarsi di grandi idee: vuole anche le
condizioni della loro possibile realizzazione.
Se avessi tempo svolgerei a questo
proposito un’altra riflessione, relativa ai nostri comportamenti. Ieri
all’assemblea della Fiom l’aspetto più irritante per me è stata la
litania delle dichiarazioni unitarie da parte di tutti gli intervenuti.
Naturale: la Fiom chiedeva unità, come si poteva andar lì a dichiararsi
contrari?
Il fatto è che mai come in questo
momento regnano, a sinistra, divisione, contrapposizioni,
frammentazione. Non posso entrare nel merito delle cause di questo
deplorevole stato di cose.
Mi limito a dire che ne siamo
responsabili tutti, nessuno escluso: tutti a sinistra predichiamo unità e
pratichiamo divisione – e le difficoltà in cui, sin dall’inizio della
sua costituzione, versa la Fds (difficoltà sulle quali si sono
soffermati già molti interventi) ne sono, mi pare, la più esplicita
dimostrazione.
Questi comportamenti non sono
semplicemente incoerenti, ma anche scriteriati, e per spiegarmi in un
minuto citerò l’ultima frase che vorrei ricordare. Ieri Ferrero ha
insistito molto sulla paura, sulle conseguenze negative della paura (che
impedisce – ha detto – di capire e di agire razionalmente), quindi
sulla necessità di non avere paura. Credo di capire che cosa intendesse
dire, ma penso che, formulata così, questa sia un’idea un po’
pericolosa.
Ascoltando queste parole mi è venuta in
mente un bel documentario storico sulle donne partigiane. A una di
queste compagne che raccontava un episodio eroico della Resistenza di
cui era stata protagonista (portava alcune bombe a mano in un paniere di
uova) l’intervistatore chiedeva se avesse o meno paura. Lei rispose:
«certo che avevo paura: avevo sempre paura, altrimenti non sarei
sopravvissuta».
Poi spiegò che il coraggio non è assenza
di paura, è scelta, volontà consapevole dei pericoli; il coraggio
convive con questa consapevolezza e con la paura che ne discende.
Altrimenti, se questa consapevolezza non c’è, non si tratta di coraggio,
ma di incoscienza – quella che avrebbe indotto la compagna partigiana a
correre rischi inutili o eccessivi e probabilmente a lasciarci la
pelle.
Perché dico questo (e sono certo del
resto che anche Ferrero sia d’accordo)? Perché noi dobbiamo proseguire
nella nostra battaglia (di autonomia, di coerenza e di unità) senza
rimuovere la coscienza dei gravi pericoli oggi incombenti – sul nostro
partito, sulla sinistra italiana, sul Paese e sulla democrazia, in
Italia e in tutta Europa.
Chi tra noi non dovesse avere coscienza
di questi pericoli (qualche volta sembra che a qualcuno di noi in
effetti venga meno, quando ci ripieghiamo in estenuanti discussioni
bizantine su questioni che si vogliono di principio mentre a me
sembrano, con tutto il rispetto, di lana caprina) – chi non avesse
coscienza di questi gravissimi pericoli, non dimostrerebbe, secondo me,
di avere coraggio, ma semplicemente di vivere fuori dalla realtà.
Alberto Burgio - Intervento al Comitato Politico Nazionale di Rifondazione Comunista del 10 giugno 2012
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