Sarà mica che porto sfiga?
Nell’estate del 2007 mi trovavo in California; quello fu l’anno della crisi dei mutui subprime.
Il nome è improprio, come tutti i nomi che vengono dati ai vari crack
del capitalismo; i giornalisti amano etichettare le catastrofi
economiche a seconda del casus belli, camuffandone in questo
modo le cause profonde. Con questa nomenclatura, la Prima Guerra
Mondiale dovrebbe chiamarsi la Guerra dell’Attentato di Sarajevo, mentre
la Seconda potrebbe essere registrata nei libri di storia come la
Guerra della Radiostazione di Gleiwitz.
Ad ogni modo, l’esplosione della bolla immobiliare mise in luce la
fragilità della crescita statunitense; si erano accumulate montagne di
dollari vendendo case a prezzi sempre crescenti a famiglie senza soldi e
ad imprese senza liquidità, e costruendo castelli di carta speculativi
su previsioni irrealistiche di crescita eterna di questi prezzi. L’era
Bush entrava in declino in un clima crepuscolare ben descritto da
quelle scene di Capitalism, a Love Story di Michael Moore in cui si mostra come le banche abbiano imposto allo stesso Congresso il Grande Salvataggio (bail out)
nell’autunno 2008, inducendo dozzine di parlamentari smidollati ad
approvarlo dopo che il 29 settembre la Borsa era crollata perché i
deputati avevano “votato sbagliato” in uno strano sussulto di
democrazia. Il Bail Out era di 700 miliardi di dollari tondi; a
chi chiese perché la cifra fosse proprio quella, si rispose con
compiacimento che non c’erano motivi tecnici, doveva solo sembrare
«bella grossa».
Sarà mica che porto sfiga?
Nel 2008 mi ero trasferito a Londra; quello fu l’anno della crisi
bancaria britannica. Dopo che per qualche mese si erano combattuti su
riviste e giornali gli “ottimisti” e i “pessimisti” rispetto alla
possibilità che la crisi “immobiliare” statunitense potesse esondare
oltre il settore immobiliare e al di là dell’Atlantico, i fatti hanno
dato ragione a chi riteneva che la bolla immobiliare USA aveva coperto
per anni, come le ghette da ricco di Zio Paperone, non solo i piedi
d’argilla dell’economia degli Stati Uniti, ma quelli dell’intero
capitalismo mondiale e in particolare europeo.
La locomotiva nordamericana stava frenando e il primo vagone a
sbatterle contro era quello con la Union Jack. Sui giornaletti gratuiti
della metropolitana si leggeva una parola che sembrava bandita da
decenni: nazionalizzazione di una banca che stava crollando, Northern Rock;
era dagli anni Settanta che non si nazionalizzava più niente nel Regno
Unito. Northern Rock diventa statale, viene spezzata in due parti, una
good bank e una bad bank. La parte buona viene
rivenduta a Virgin Money nel 2012 per 747 milioni di sterline, metà di
quello che lo Stato ci aveva buttato dentro l’anno precedente. La parte
cattiva resta nazionalizzata, lasciando ai bilanci pubblici la
minaccia di perdite potenziali fino a 21 miliardi di sterline. Di rado
si è visto un esempio più clamoroso di socializzazione delle perdite e
privatizzazione dei profitti.
Sarà mica che porto sfiga?
Nel 2009 torno in patria; la crisi mi segue e sbarca in continente.
Si inizia a parlare di crisi dei debiti sovrani. Non c’è da stupirsi,
i liberisti dell’altroieri da un paio d’anni erano tutti diventati
mezzi keynesiani pronti a “stimolare l’economia” con disperati
salvataggi finanziati coi fondi pubblici. I discorsi concentrati sul
settore finanziario tendono a nascondere però il legame con l’economia
reale: la crisi non era solo delle banche, ma di tutti i settori
dell’economia, non foss’altro perché non è oggi possibile tracciare
confini netti tra economia reale e finanza, quando qualsiasi impresa o
famiglia ha bisogno di un flusso di credito continuo, e viceversa quasi
ogni impresa e moltissime famiglie hanno investimenti in questo o quel
prodotto finanziario. Non esiste una grande holding che non abbia una
controllata che si occupa di finanza e talvolta anche di speculazione
immobiliare; ci sono milioni di lavoratori con pensione e liquidazione
in parte o del tutto sotto forma di fondi d’investimento. Se questa è la
situazione, le spese folli degli Stati per salvare le banche non
potevano certo essere finanziate dalla semplice tassazione dell’economia
reale, a sua volta boccheggiante. Questi regali colossali al capitale
finanziario sono avvenuti a spese di un incremento dell’indebitamento
pubblico; basti pensare che nell’anno del Grande Salvataggio il deficit
USA è cresciuto di mille miliardi di dollari, realizzando il più grande
buco di bilancio dalla fine della Guerra della Radiostazione di
Gleiwitz. Nell’agosto 2011 gli Stati Uniti d’America sono arrivati
addirittura a un passo dal default quando in parlamento non si riusciva a
trovare un accordo per innalzare il tetto del debito pubblico; per la
prima volta nella storia, i titoli di Stato USA hanno subito un downgrading da parte di Standard & Poor’s.
Se il debito pubblico di un Paese come gli Stati Uniti, che per
difendere la propria credibilità hanno pur sempre a disposizioni
abbastanza armi da radere al suolo l’intero globo, poteva dare dei
grattacapi, figuriamoci quello di Paesi come la Grecia o l’Italia. Una
complicazione aggiuntiva è data dal fatto che mentre gli USA sono
padroni della propria moneta e quindi la Federal Reserve può intervenire
in situazioni di emergenza scaricando sul dollaro i problemi dei conti
pubblici (e viceversa), la Grecia o l’Italia devono mettersi d’accordo
con gli altri Paesi della zona euro se vogliono tenere a galla i loro
Stati a spese della moneta comune. Se l’economia affonda come il
Titanic, conti pubblici e stabilità della moneta sono Rose e Jack finiti
nell’acqua gelida dell’Atlantico: complici i fianchi troppo rotondetti
di Kate Winslet, se Di Caprio vuole salvarla deve starsene a mollo
perché sulla zattera improvvisata non c’è posto per entrambi. Ma quei
due perlomeno si amavano anche nel corso di un naufragio, mentre tra le
borghesie europee non si può dire che si applichi il motto «A friend in need is a friend indeed».
L’euro, armatura comune forgiata sognando tempi di vacche grasse, in
tempi di vacche magre diventa una camicia di forza proprio per le
economie più deboli. Politiche monetarie anticicliche che sulla carta
sarebbero opportune per la Grecia non sono accettabili per la Germania,
che anzi pretende dai governi greci comportamenti “virtuosi” ovvero di
austerity dura, in nome dell’euro e in cambio di “aiuti” ricattatorî.
Nelle volute delle bizantine procedure decisionali dell’Unione Europa e
dell’Eurogruppo si creano i vuoti democratici adatti a contenere una
moderna tecnocrazia, che negli anelli deboli del mercato comune assume
il volto di una sorta di colonialismo finanziario prussiano.
Forse porto sfiga davvero. O forse facciamo un errore di prospettiva quando confondiamo la crisi con le sue manifestazioni,
illudendoci che riguardi una certa moneta, un certo Paese, un certo
aspetto dell’economia e della politica, una certa porzione di umanità.
Siamo gli australiani della città di Darwin che il 1° settembre 1939
leggono sul giornale della sera dell’incidente avvenuto il giorno prima
alla radiostazione di Gleiwitz, in Polonia; a chi ci dice che il
problema è la voracità dell’imperialismo, non solo tedesco, dovuta alla
crisi mondiale del capitalismo iniziata nel 1929, rispondiamo che non
ci interessano discorsi astratti, ma fatti concreti e soluzioni
concrete, praticabili localmente. Da vicino, le spiegazioni generali
sembrano generiche, le soluzioni complessive sembrano complicate. Due
anni e mezzo dopo, noi australiani della città di Darwin siamo morti:
l’aviazione dell’Asse ci ha bombardato con 242 aerei giapponesi. Che
sfiga.
Tocca fare un passo indietro e col rischio di sembrare scolastici
ripetere verità un tempo acquisite e oggi sepolte dall’arretramento
ideologico degli anni Ottanta e Novanta. Le crisi periodiche
dell’economia capitalistica sono di regola crisi di sovrapproduzione.
Qualcuno in questi casi osserva che questa volta è diverso e non c’è
sovrapproduzione. Sia lecito soltanto ricordare che da molti decenni è
chiaro anche in ambito marxista, oltre che in qualsiasi libro di
Economia Industriale, che la sovrapproduzione si manifesta nei settori maturi del capitalismo come sovracapacità cioè sovrapproduzione potenziale.
Gli economisti spiegano che nei settori con una struttura di mercato
più concorrenziale, dove l’offerta di molte aziende cerca la sua
domanda, la crisi ha la forma della sovrapproduzione (l’esempio tipico è
quello della distruzione di prodotti agricoli invenduti); nei settori,
tipicamente oligopolistici, dove la domanda crea la sua offerta, la
crisi ha la forma del mancato utilizzo degli impianti che scatena
autodistruttive guerre di prezzo (qui l’esempio tipico è il settore
automobilistico, dove le poche marche presenti sul mercato mondiale
cercano di capire chi dovrà chiudere qualche stabilimento perché sia
assorbita la capacità produttiva in eccesso che oggi in Europa pare sia
addirittura intorno al 30%).
Del resto, che la sovrapproduzione sia un fatto reale e non uno
schema libresco di un marxismo datato, è un fatto che chiunque può
verificare facilmente se ha purtroppo a che fare con una crisi
aziendale. Quest’ultimo inverno ho avuto modo di incontrare due presidî
operai nella provincia dove abito. In entrambi i casi, tutti i
dipendenti erano minacciati di licenziamento, addirittura in una delle
due fabbriche il padrone sembra fosse scappato in un Paese dell’est.
Fuori dai cancelli, c’erano i lavoratori con gli striscioni e le
bandiere, con il fuoco acceso in un bidone e con la rabbia e la
solidarietà che sono il respiro e il battito del cuore di questi momenti
di lotta. Dentro i cancelli, in una fabbrica c’erano dozzine di
roulotte e camper invenduti allineati nel parcheggio che faceva da
magazzino; nell’altra c’erano migliaia e migliaia di marmitte. La crisi
nel capitalismo non è come le carestie di un tempo; le vacche non sono
magre, sono obese.
Quando l’economia reale entra o sta per entrare in questa situazione è
perché si rompe la capacità degli investimenti di generare profitto
con lo stesso ritmo di prima. Siccome nel capitalismo fare profitto
aprendo una fabbrica, piuttosto che comprando dei derivati sul mercato
finanziario, piuttosto che affittando un terreno, è semplicemente un
modo come un altro di investire i propri soldi, c’è un sistema di vasi
comunicanti tra il profitto, l’interesse e la rendita. Nella misura in
cui si prosciugano le occasioni di profitto nell’economia reale, i
capitali affluiscono in quella fittizia, finché le bolle che lì si
creano non scoppiano a loro volta. D’altronde, per via di quella che
Lenin chiamava «la fusione delle banche con lo Stato», le difficoltà
della finanza privata non possono lasciare indenne la finanza pubblica.
La crisi di sovrapproduzione/sovracapacità diventa crisi bancaria
diventa crisi del debito sovrano diventa crisi valutaria. Non è sfiga!
Nel 2001 un’americana che conosco mi scrisse che l’attentato alle
Torri Gemelle dimostrava… la necessità di limitare la vendita dei
biglietti aerei a persone di provata fiducia. Questo semplicismo può
sembrare ingenuo, ma che dire allora di quei sapientoni che nel 2008
sostenevano su autorevoli giornali che la cosiddetta crisi dei mutui subprime
dimostrasse la necessità di controllare meglio certi derivati
finanziari? (E i più spudorati avranno anche detto che «non van più
fatti i mutui ai negri».) Come se il problema iniziasse e finisse in
quegli uffici dove con un timbro e una firma frettolosa si accendevano
mutui-spazzatura che poi venivano inoculati in prodotti finanziari
diversificati che ne nascondevano la tossicità…
Quando la crisi ha cominciato a mandare in tilt il mercato dei debiti sovrani, ad ogni punto di spread
si ripeteva sugli stessi giornali la formula magica di tagliare i
costi morti dello Stato; ancora una volta, come se il problema
iniziasse e finisse quando i parlamentari schiacciano il pulsante verde
per votarsi l’ennesimo aumento di stipendio…
Nel 2012 il frame dominante del
discorso pubblico sulla crisi in Italia sta diventando un altro:
l’uscita dall’euro. L’Italia è uno dei pochi Paesi d’Europa dove gli
euroscettici hanno sempre contato poco o niente; la stessa Lega Nord
che qualche volta borbottava contro l’euro non ha mai alzato la voce su
questo tema. Anche a sinistra l’europeismo, con qualche o nessun
distinguo, l’ha sempre fatta da padrone. Il primo governo Prodi ci ha
portato nell’euro attuando un massacro sociale, con l’assenso nei fatti
dei sindacati e di tutta la sinistra parlamentare. Ciò ha creato – e
giustamente – forti lacerazioni. Ricordo un muro (o era uno
striscione?) con la scritta «Per l’Europa sociale», ambiguo slogan
utilizzato per dire sì all’Unione Europea idealmente ma no all’Unione Europea immanente;
qualcuno aveva sbarrato l’ultima lettera e aveva corretto «sociale» in
«socialista», trasformandolo nella parola d’ordine contrapposta dai
più “duri”, che dicevano che l’Unione Europea era dei padroni e
quindi irriformabile. La cosa buffa è che chi aveva corretto lo slogan
non aveva corretto la firma: faceva evidentemente parte di un’ala
diversa della stessa organizzazione.
Un dibattito tardivo è un dibattito cattivo. Lasciamo pure perdere
riformisti, socialdemocratici impenitenti, burocrati sindacali e
politicanti del centrosinistra: per costoro, sventolare la bandiera blu
con le dodici stelle è una conseguenza logica del loro collocamento
tutto interno alla logica del capitalismo europeo. Quelli che ci
interessano sono invece i nodi irrisolti nel dibattito sull’Europa e
sull’euro all’interno della sinistra di classe e di movimento.
Siamo arrivati al 2012 senza esserci mai chiariti le idee su questo
tema, fatte salve alcune analisi più acute e profetiche che non sono
purtroppo diventate patrimonio comune di un’area abbastanza ampia. Oggi
ci svegliamo con Beppe Grillo che capitalizza facili
consensi sulla proposta raffazzonata di ritorno alla lira e
improvvisamente siamo reclutati frettolosamente in una delle due
tifoserie contrapposte: quelli che tengono per l’euro contro quelli che
tifano lira. Riproduciamo in una forma più provinciale e banalizzata
una discussione che spacca la sinistra greca.
Cosa c’è che non va in questo frame? C’è che la causa della crisi e dell’austerity non è l’euro.
Abbiamo visto che la crisi è iniziata negli Stati Uniti, dove tutti
gli indizi fanno ritenere che la moneta a corso legale sia il dollaro.
Abbiamo visto che la crisi ha colpito la Gran Bretagna, un arcipelago
europeo in cui si usano banconote con la faccia della regina Elisabetta
II. Tutti i Paesi dell’Unione Europea sono stati in recessione almeno
un anno dall’inizio della crisi, con una sola eccezione (la Polonia), a
prescindere dal fatto di avere o non avere l’euro. Anche i Paesi
europei fuori dall’Unione sono stati colpiti, la Serbia è tuttora in
caduta libera e addirittura la solidissima Svizzera, dopo aver avuto
seri problemi nel 2009 (PIL -1,9%) ed essersi ripresa, è a rischio di
una seconda recessione nel 2012.
Gli economisti “eterodossi” che propugnano come soluzione l’uscita
dall’euro, la svalutazione competitiva della dracma o della lira e un
sano intervento statale per rilanciare i consumi, magari finanziando il
deficit pubblico con il gentile aiuto della banca centrale nazionale,
in primo luogo non sono poi così eterodossi (sono idee vecchissime su
come salvare il capitalismo da sé stesso), in secondo luogo la fanno
troppo semplice. Sembrano credere che la crisi sia il frutto di una
follia collettiva chiamata monetarismo o liberismo, e in particolare
della cocciutaggine della BCE e di Angela Merkel.
Assecondare queste idee può sembrare molto rivoluzionario ma in
realtà significa ritenere che il capitalismo sia un sistema ancora
funzionale, che si è semplicemente un attimo inceppato in una manciata
di Paesi del nostro continente per colpa della moneta comune. Se diciamo
questo stiamo credendo che Hitler si sia davvero preso tanto a cuore
la radiostazione di Gleiwitz.
Sia chiaro, il discorso vale a maggior ragione per gli innamorati
dell’euro. Un aspetto positivo di questa ventata di euroscetticismo è
che si spera metta il mordacchio alle tante scemenze da bar che ci siamo
sorbiti negli ultimi anni: «Senza euro saremmo in Africa»… come la
Svezia? «Senza euro la crisi ci avrebbe distrutto»… e invece cosa è
successo?
Al tempo stesso è utopistico credere che gli effetti catastrofici
della rottura dell’euro siano fandonie profetizzate soltanto per fare
terrorismo psicologico contro i greci. Chi sostiene la dracma o la lira
spiega che in fondo una svalutazione anche notevole può non riflettersi
in un’inflazione galoppante, perché non tutto viene importato e quindi
anche se importare diventasse più costoso del 50% non tutto questo
aumento dei costi si ripercuoterebbe sui prezzi, ma magari solo un
5-10%. Per esempio, se un greco comprasse un pesce pescato nel mar Egeo
da una nave greca e processato da una ditta greca, il prezzo del pesce
in dracme non schizzerebbe in alto, salvo un pochino in più per
l’aumentato costo del carburante usato dalla nave e dalla fabbrica.
Questo discorso dimentica completamente il contesto internazionale.
Se l’euro si spacca, con la Grecia che se ne va sbattendo la porta
(ovvero ripudiando una parte del suo debito verso le banche francesi,
tedesche, italiane ecc.), qualcuno crede che i capitalisti tedeschi e
francesi osserveranno compiaciuti l’export della Grecia crescere grazie
ad una dracma svalutata? L’Economist non la manda a dire:
«I pochi rimasti nell’euro […] avrebbero uno svantaggio competitivo […] Oltre a imporre controlli sui capitali, i Paesi attuerebbero una ritirata verso l’autarchia, innalzando barriere doganali per rappresaglia. La sopravvivenza del mercato unico europeo e della stessa UE sarebbe minacciata».
Non si può discutere di economia monetaria come se fossimo di fronte a
un esperimento da laboratorio sulla manipolazione dei tassi di cambio
invece che nel bel mezzo di una crisi epocale – anche perché le cavie
potrebbero avere qualcosa da ridire.
Inoltre, siamo sicuri che la questione del tasso di cambio tra
monete, e quindi della moneta unica o della moneta nazionale, riguardi
soprattutto l’export e l’import di beni e servizi, ovvero la bilancia
commerciale? Gli stessi che tuonano ogni istante contro la
finanziarizzazione dell’economia, quando si parla di politica monetaria
sembrano improvvisamente dimenticarsene. Il motivo principale per cui
al mondo si convertono euro in dollari o yuan in franchi svizzeri non è
per comprare beni di consumo: è per speculare (cioè per rivenderli
quando il prezzo sarà risalito) o per acquistare capitale. I
flussi di capitale e in particolare di capitale azionario sono più
importanti della bilancia commerciale nel determinare quali monete sono
forti e quali deboli.
Gli aspetti veramente drammatici di un’uscita dall’euro in un
contesto capitalistico sarebbero dovuti ai flussi di capitale,
speculativi e non. Nel 2010 16 miliardi di dollari di capitale azionario
di imprese greche era in mano straniera, uno stock equivalente al 5%
del PIL annuo; d’altronde gli stessi capitalisti greci non si faranno
certo scrupoli patriottici nell’investire all’estero se l’andamento dei
cambi lo renderà più vantaggioso. La fuga dei capitali, specialmente se
accelerata da meccanismi di panico degli investitori o addirittura di
sabotaggio cosciente da parte dei grandi gruppi finanziari, è la vera
questione che dovrebbe affrontare un governo che decidesse il ritorno
alla dracma. Questo dovrebbe preoccupare a maggior ragione i nostalgici
della lira qui da noi, dove lo stock di investimenti esteri si aggira
attorno al 12% del PIL.
Con questo sto dicendo che per evitare di mettere in fuga i
capitalisti bisogna stare a tutti i costi nell’euro? Assolutamente no.
Sto dicendo che non esiste una via d’uscita che non si ponga il problema
di chi controlla i flussi di capitale, cioè di chi possiede i mezzi di
produzione. Per questo motivo non esistono né in Italia né in Grecia
dei settori importanti della classe imprenditoriale che tifino per la
lira o per la dracma: perché sanno che per loro non esiste una via sensata di sviluppo capitalistico alternativo all’austerity e all’adeguamento alle politiche della BCE. Del resto, se anche una tale via fosse praticabile a modo loro,
lo sarebbe solo a costo di attacchi ai lavoratori, ai pensionati, ai
disoccupati altrettanto duri di quelli che implica il rispetto dei
vincoli dell’euro: dal punto di vista dei lavoratori, la lotta
all’austerity dell’euro si trasformerebbe in lotta per la difesa dei
salari reali dall’inflazione e lotta per la difesa dei posti di lavoro
dalla fuga di capitali. È un nuovo ring per lo stesso match.
Paradossalmente, gli unici a credere ad un capitalismo dal volto
umano in Europa sono quegli spezzoni della sinistra radicale
ex/post/neo-comunista che non hanno il coraggio di parlare apertamente
di rivoluzione sociale; attorno alle loro ambiguità vegeta un sottobosco
di economisti neokeynesiani, di strateghi del default amichevole, di
complottisti o semicomplottisti che possiamo etichettare come
signoraggisti, fautori delle “monete di popolo”, rossobruni o guru
“iperkeynesiani” della Modern Money Theory.
L’Europa è oggi al bivio tra declino e rivoluzione. Mutatis mutandis,
i processi su scala continentale in corso dalla fine del XX secolo in
America Latina ci suggeriscono il tipo di quadro con cui dovremo
confrontarci. Si noti, a questo proposito, che l’uscita (realizzata o
rivendicata) di alcuni Paesi latinoamericani dalla dollarizzazione è
stata talvolta parte di processi rivoluzionari, talvolta semplicemente
una misura d’emergenza che si è imposta in un quadro di conservazione
del sistema esistente, facendone pagare i costi sociali alle masse.
Viceversa, il governo bolivariano del Venezuela, che non può certo
essere accusato di essere amico degli yanqui, tenta di
mantenere un tasso di cambio fisso col dollaro; l’aggancio al dollaro è
stato deciso da Chávez proprio in risposta ai tentativi
controrivoluzionari del 2003 ed è stato duramente criticato e sabotato
dalla Confindustria venezuelana. Anche nel periodo della Guerra Fredda,
il rublo sovietico e altre monete del blocco orientale erano spesso
poste in parità con valute dei Paesi imperialisti occidentali, di solito
la sterlina. Cito apposta Paesi di questo genere perché sovente sono
mitizzati da certi ambienti del movimento e della sinistra: speriamo che
questo faccia sorgere in loro il dubbio che il nesso tra
anticapitalismo e libera fluttuazione dei cambi sul mercato non si ponga
nei termini in cui lo rappresentano. Sarebbe peraltro curioso che,
sventolando bandiere rosse nelle piazze, ci appellassimo alla mano
invisibile del mercato arrivati alla soglia delle agenzie di cambio.
Sto dicendo, insomma, di ribaltare i termini della questione. Non si
tratta di cercare scampo all’austerity nel ritorno a monete nazionali
svalutate; si tratta di rifiutare l’austerity, lo strangolamento per
debiti, la distruzione della società causata dalla crisi economica,
portando questo rifiuto fino alle sue estreme conseguenze. Tra queste
conseguenze, certo, c’è con ogni probabilità la rottura non solo
dell’euro ma anche di tutti gli altri trattati europei, atlantici e del
Fondo Monetario Internazionale. Infatti rompere la garrota del debito
che costringe all’austerity significa attuare un default non negoziato,
rifiutando ai grandi creditori nazionali e stranieri il pagamento di
interessi usurai e parassitari. Lo stress che questo imporrebbe alle
banche nazionali ne imporrebbe l’immediata nazionalizzazione; d’altronde
questo tabù l’hanno rotto i padroni per primi e non si capisce perché
la nazionalizzazione truffaldina di Northern Rock vada bene mentre
nazionalizzare il sistema bancario nell’interesse della massa della
popolazione debba essere considerato sacrilego. Nazionalizzare il
sistema creditizio apre immediatamente la strada al controllo delle leve
fondamentali dell’economia di un Paese, perché al giorno d’oggi i
grandi gruppi industriali e commerciali, come la grande proprietà
fondiaria e immobiliare, sono tutti in una posizione subordinata
rispetto alle banche. Del resto, la fuga di capitali e le
delocalizzazioni andrebbero contrastate con misure drastiche di
controllo, che entrerebbero in sinergia con lotte dal basso, per esempio
le occupazioni di fabbriche e di uffici che si stanno moltiplicando
anche in Europa via via che la crisi minaccia con la chiusura dei luoghi
di lavoro la vita di milioni di famiglie operaie e impiegatizie.
Avanzare un programma di questo genere significa rompere con l’euro,
nei Paesi dove c’è l’euro, ma anche rompere con qualsiasi altro assetto
di potere nei Paesi dove non c’è. La questione valutaria diventa una
mera variante tattica di un’uscita rivoluzionaria dalla crisi che si
pone in termini simili in tutti i Paesi; anzi, rifiutarsi di porre un
programma simile come se il suo perno fosse l’uscita dall’euro significa
porlo già in chiave internazionale, ovvero evitare di sostenere che la
soluzione della questione greca o italiana vada trovata entro i
confini della Grecia o dell’Italia. Non stiamo dicendo alle masse
dell’Europa in crisi che ce ne andiamo e lasciamo a loro la patata
bollente, stiamo proponendo una soluzione che può e deve essere
emulata. Non credo alla rivoluzione sovranazionale simultanea, ma credo
all’effetto domino. Non sarebbe la prima volta.
Non avrebbe infatti molto fiato una Grecia rivoluzionaria nel bel
mezzo di un’Europa ostile e incarognita se non fosse l’innesco di un
processo di trasformazione sociale su scala perlomeno continentale.
Sono allucinazioni? La crisi ha solo sbocchi di destra? Chi pensa così legga il programma di Syriza,
la coalizione di sinistra che forse vincerà le elezioni greche tra
qualche giorno. I fatti contano più delle parole e le azioni di governo
contano più della carta straccia dei programmi elettorali, ma è chiaro
che il fatto che in Europa si possano vincere elezioni con un programma
del genere è come minimo indicativo di una consapevolezza di massa in
Grecia sulla necessità di misure radicali e anticapitaliste come unica
alternativa all’austerity e al declino per debito. Guardiamo
all’aspetto dinamico del processo, non all’istantanea del punto a cui
siamo arrivati finora. Una rivoluzione non è l’assalto di un gruppo
compatto di rivoluzionari ai palazzi dei padroni, una rivoluzione
stravolge e trasforma anche gli stessi gruppi che intendono guidarla o
che si trovano loro malgrado a farlo: i punti più acerbi e utopici (mi
riferisco in particolare al 2, che propone in sostanza una riforma
della BCE) saranno i bastioni delle tendenze più moderate all’interno
di Syriza, i punti più audaci (quelli che parlano di nazionalizzazioni,
di diritti dei lavoratori, di uscita dalla NATO e dalle missioni di
guerra) saranno agitati dalla base radicalizzata e dagli hardliner.
Il Partito Comunista Greco (KKE) nel trattare Syriza alla stregua di
un François Hollande qualsiasi sta probabilmente sbagliando la
bracciata e rischia di essere punito severamente dalle masse nelle urne
e nella società. Ponendo la dracma come criterio discriminante e di
fatto come pretesto per non formare un fronte unitario traccia una
linea divisoria che non rappresenta correttamente i due lati della vera
barricata.
Ad ogni modo, comunque la si pensi rispetto al dibattito nella
sinistra greca, questi temi sono destinati ad uscire dalle nostre
assemblee ristrette e dai siti web “d’area” per diventare argomenti di
confronto politico quotidiano anche nel nostro Paese. A dispetto di
tutti i ritardi politici e culturali che l’Italia si porta dietro, i
fatti avranno la testa più dura della zucca di legno di tanti dirigenti
politici e sindacali; il tipo di temi su cui litigheremo o ci scopriremo compagni sono questi e non altri; i frame
tossici sono destinati ad essere smontati uno dopo l’altro. Una
rivoluzione consiste prima di tutto in milioni di persone comuni che
iniziano a discutere di politica volando alto rispetto alle miserie del
gossip parlamentare. Il primo passo di una rivoluzione è quando si
cerca una spiegazione collettiva alle sfighe individuali.
Le sfighe che ci stanno colpendo sono parecchie, ma hanno una causa e una soluzione comune. Prepariamoci a parlare un bel po’.
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