mercoledì 6 giugno 2012

L’astensionista di Emilio Carnevali, Micromega


Tutti lo cercano, tutti lo vogliono, tutti lo coccolano, l'astensionista. Soprattutto, tutti gli danno ragione all'astensionista, nel suo gesto di sacrosanto ed aristocratico sdegno. Per una volta, allora, siamo noi a voler dismettere i panni della paludata indulgenza per gridargli sotto la finestra: "Astensionista! Perché non muovi il culo e ci vieni un po' a dare una mano pure tu?".
 
L'astensionista di sinistra è un gran figo. In un Paese di corrotti ed allocchi è uno degli ultimi presidi di integrità ed intelligenza in circolazione. Ma l'astensionista è anche una personalità complessa ed intrigante: sfugge alle consumate etichette che gli vorrebbero appiccicar addosso; sgattaiola fuori dalla banalità delle categorie solitamente utilizzate per fare ordine fra ruoli e posizionamenti del teatrino politico, mortificando la ricchezza della sua poliedrica creatività. In genere l'astensionista è “Oltre”, ed è per questo che i tentativi di catturarne il consenso appaiono ai suoi occhi sempre, stucchevolmente, inadeguati.
L'astensionista sarebbe un'enorme risorsa per la comunità. Se solo uno fra i disgraziati leader che calcano goffamente la scena della sinistra italiana si prendesse la briga di sollevare il telefono e chiedergli qualche consiglio, l'astensionista gli spiegherebbe come potrebbe finalmente sbaragliare tutti gli avversari e guidare il paese verso i tanto agognati lidi della giustizia e della libertà. Con questo, però, non si deve pensare che l'astensionista sia un conformista: lui sa capire i desideri della massa, non è parte della massa. Ci tiene tantissimo, anzi, a preservare la sua irripetibile individualità da qualsiasi dinamica da arruolamento. E infatti il suo impegno attivo non potrebbe mai andare oltre la risposta a quella telefonata. Anche perché l'astensionista di sinistra è uno che non se la beve. È colto, informato, legge i giornali – se pure svogliatamente, sottolineando di continuo il livello infimo e il carattere terribilmente provinciale della nostra stampa, tutta la stampa –, ma sa distinguere perfettamente fra quel poco di utile sul quale deve concentrarsi e la caterva di immondizia che è data in pasto alle anime semplici.
Nelle conversazioni, l'astensionista si fa riconoscere in tempi rapidissimi: le sue reazioni oscillano immancabilmente fra l'indignazione e il sarcasmo, molto spesso in una sapiente ed equilibrata miscela. L'astensionista si dichiara sempre astensionista. Talvolta, però, finisce anche per andare a votare. Sempre precisando, comunque, che lo ha fatto turandosi il naso: nessuno era naturalmente all'altezza della sua capacità di visione e di pensiero; o della radicalità delle sue proposte. Per l'astensionista, infatti, la politica non è pratica del cambiamento possibile, ma “performance dell'identità”. E in attesa che la massa capisca quale diamante grezzo custodiva in grembo, costringendolo a bere l'amaro calice della responsabilità pubblica, l'astensionista si prepara ad affrontare il primo tornante dell'«avevo detto».
L'unica cosa che ammorbidisce l'astensionista, gli fa rivelare un po' di indulgenza nei suoi giudizi, è la vittoria. Se un tal soggetto perde le elezioni, vengono confermate e rafforzate tutte le sue precedenti stroncature («era ovvio, non poteva andare diversamente»). Se vince è perché, almeno un po', il soggetto in questione si è messo a dire o fare cose che lui sostiene da anni (inascoltato).
La vittoria è un balsamo taumaturgico e miracoloso che può trasformare un qualsiasi Giuliano Pisapia – «già politicante trombato, scarto rifondarolo, furbastro con venti anni di Parlamento alle spalle (e di inciuci pseudogarantisti con la destra berlusconiana)» – nell'eroe della Primavera Arancione, degno erede dei patrioti delle Cinque Giornate, uomo nuovo capace di far finalmente soffiare il vento della trasformazione.
Quando l'astensionista è un intellettuale, non sono solo i politici ad essere tutti, indistintamente, imbarazzanti e penosi. Anche tutti gli altri intellettuali non hanno capito nulla della fase che si sta attraversando. Tutti, naturalmente, tranne lui stesso e il solito, sconosciuto, drammaturgo/poeta armeno non ancora tradotto, che nel 1952 aveva già tracciato un quadro lucidissimo e sorprendentemente premonitore di ciò verso cui stavamo andando incontro.
Tutti lo cercano, tutti lo vogliono, tutti lo coccolano, l'astensionista. Soprattutto, tutti gli danno ragione all'astensionista, nel suo gesto di sacrosanto ed aristocratico sdegno. Anche quel povero Cristo di consigliere comunale della provincia calabrese a cui ogni tanto salta per aria la macchina parcheggiata davanti casa; e in cuor suo pensa: «Astensionista, perché non muovi il culo e ci vieni un po' a dare una mano pure tu?».

P.S. A chi volesse prendere troppo sul serio questa estemporanea boutade, ricorrendo al facile argomento secondo cui il sacrosanto sdegno è più che giustificato dalla miseria dell'attuale classe politica, rispondiamo con quattro brevissime notarelle:
- L'attuale classe politica – o Casta, che dir si voglia – è stata eletta dai cittadini italiani. Ed è anche per colpa dell'astensionista se stanno lì quelli che stanno lì.
- Il tanto vituperato sistema dei partiti, il quale altro non è che il meccanismo della democrazia rappresentativa, è l'unica cosa che attualmente sta dando prova di una certa vitalità in questo Paese: non a caso vengono spazzate vie forze fino a poco tempo fa maggioritarie, come Pdl e Lega, fanno il loro prepotente ingresso nuovi partiti, come il Movimento 5 Stelle (che del “nuovo” fa il proprio marchio di fabbrica) e si intravedono numerosi altri segnali di cambiamento che condurranno – non è difficile prevederlo – ad un completo ribaltamento degli assetti e degli equilibri di potere sui quali si è fondata la Seconda Repubblica. Nessun fenomeno minimamente equiparabile a questo si annuncia nelle altre italiche oligarchie (e gerontocrazie) del mondo dell'imprenditoria, della finanza, della cultura, del giornalismo, dell'università, della Chiesa, dello sport (per quest'ultimo ci riferiamo naturalmente al livello dirigenziale, dato che almeno fra gli atleti vige un ferreo principio di meritocrazia fisica: nemmeno in Italia, per il momento, si trovano centravanti settantenni).
- La crisi della rappresentanza – che è comunque innegabile e sotto gli occhi di tutti – è figlia della debolezza della politica, non solo della sua arroganza. Di una politica che è costretta a muoversi su un livello nazionale dovendo rispondere a problemi di scala continentale o addirittura globale. Lo testimonia, più di ogni altra cosa, la crisi economica nella quale siamo immersi. La soluzione politica più rudimentale e intuitiva sotto i nostri occhi occhi – e cioè che ci venga riconosciuto diritto di voto per il Bundenstag tedesco – difficilmente riuscirà ad imporsi. Dovremo trovare altre strade, possibilmente con l'aiuto di tutti. Possiamo solo assicurare che nell'offerta politica prossima ventura ce ne sarà – come si suol dire – “per tutti i gusti”: pro-euro e anti-euro, federalisti europei e indipendentisi, partisti e listocivicisti (nel senso di pro-Lista Civica), sviluppisti, rigoristi, riformisti, anticapitalisti, liberisti, protezionisti, laicisti, e chi più ne ha più ne metta.
- È del tutto ovvio che l'astensionista abbia anche le sue ottime ragioni (e che il politico responsabile deve riflettere attentamente e con umiltà su di esse). Ma sono ragioni alle quali non mancano di certo grandi analisti e difensori pugnaci. Per una volta siamo noi che abbiamo voluto dismettere i panni della paludata indulgenza.

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